
Editoriali / Lodi
Domenica 28 Settembre 2025
Gli aerei senza più bambini sono il fallimento del Paese
Le classi multiculturali e il calo della natalità
Mestre. A un tiro di schioppo dalla Venezia dei turisti. Alla prima elementare su sessanta nuovi iscritti solo dieci sono nati da genitori con la cittadinanza italiana. Tutti gli altri sono nuovi arrivati da altri paesi (pochi a dire il vero) o per la maggior parte figli di genitori che vivono a lavorano in Italia. Moltissimi di questi sono bengalesi che hanno trovato impiego nello stabilimento di Fincantieri o nell’indotto della città lagunare. Una sproporzione, quella del numero degli iscritti stranieri rispetto agli italiani, che ha portato il consiglio di istituto a interrogare gli assessori competenti e il sindaco Brugnaro.
Fin qui la cronaca tratta dai quotidiani locali veneti. Ma quanto avviene a Mestre, sebbene estremo, non è caso isolato. La vicina Monfalcone ne è l’esempio. E guardando nel nostro territorio, il quadro, sebbene composito, evidenza situazioni non molto dissimili. Alla scuola primaria del quartiere San Rocco di Sant’Angelo Lodigiano quest’anno nelle classi prime il numero di iscritti con entrambi i genitori italiani è esiguo, ed è ormai una costante.
Basta scorrere l’elenco di una classe prima per trovare cognomi romeni, albanesi, egiziani, marocchini, cinesi, nigeriani, senegalesi, ivoriani. Moltissimi nati da genitori che vivono stabilmente in Italia. E poi, quando le maestre fanno l’appello, al mattino, spunta qua e là anche qualche cognome italiano.
Mestre, Monfalcone, il piccolo caso di Sant’Angelo Lodigiano sono solo alcuni esempi di quel che avviene laddove il numero di immigrati provenienti da altri Paesi è cresciuto negli ultimi trent’anni in maniera significativa. Ma non possono più essere considerati dei “casi”, perché in tutta Italia, specie nelle aree maggiormente industrializzate, il numero di bambini nati in Italia da genitori stranieri che approdano alla scuola primaria è importante e risalta in maniera ancora più evidente a fronte della progressiva diminuzione dei bambini nati da genitori italiani.
La nostra scuola, riflesso della nostra società, non sta cambiando, ma è già cambiata. Ne discende che è urgente riaprire il confronto politico sulla cittadinanza per provare a lavorare soprattutto sull’integrazione. Eliminiamo le posizioni estreme e pericolose per la tenuta della nostra società, che provo a sintetizzare brutalmente come “dentro tutti” o “tutti a casa loro”, e rimettiamo al centro un confronto serio sul tipo di modello di società che vogliamo provare a plasmare. Se è vero che i bambini nati da genitori stranieri godono dei medesimi diritti dei bambini nati da genitori italiani, dalla scuola alla sanità fino all’assistenza sociale garantita dai Comuni, è altrettanto evidente che la situazione in cui ci troviamo, con classi formate per la maggioranza di bambini senza cittadinanza italiana - ai quali facciamo imparare l’inno di Mameli! - stona tremendamente e temo rappresenti un pericoloso limite alla loro integrazione e a quella delle loro famiglie. Sono nati in Italia, giocano a calcio con gli italiani, vanno alle loro feste di compleanno, frequentano i Grest negli oratori, dove sono accolti e integrati anche se non sono cattolici, mi chiedo che senso abbia continuare a girare la testa dall’altra parte.
È tempo e ora che il Parlamento si interroghi su una società che è già cambiata. La proposta avanzata da Forza Italia qualche mese fa, che collegava la cittadinanza alla frequenza scolastica, senza regalare nulla, mi pare una buona base di partenza per una discussione che debba certamente tenere in considerazione le istanze molto diverse dei partiti maggiormente rappresentativi della società (Fratelli d’Italia e Partito democratico) ma che davvero non può più essere rinviata. Legare la cittadinanza all’integrazione è fondamentale, perché oggi uno dei principali ostacoli a un percorso migratorio “sereno” e socialmente “accettato” è proprio la distanza siderale, soprattutto culturale, tra gli italiani e parte dei nuovi arrivati, che sono però ormai elemento costituivo della nostra società al pari dei Rossi, dei Bianchi, dei Russo e dei Ferrari. Non sto sostenendo che una cultura sovrasti l’altra, sto solo scattando una fotografia della realtà.
C’è poi l’altro lato della medaglia, un risvolto drammatico di cui ancora il Paese non ha chiari i contorni e soprattutto le conseguenze: il costante calo delle nascite. Il 2024 ha registrato solo 370.000 nuovi nati, con un calo del 2,6 per cento rispetto al 2023. A ciò si aggiunge un tasso di fecondità al minimo storico di 1,18 figli per donna e un aumento dell’età media al parto, che si attesta a 32,6 anni.
Siamo un Paese che invecchia velocemente, che non fa più figli, che non riesce a guardare al futuro. Festeggiamo come se fosse un traguardo di civiltà il fatto di poter portare i cani sugli aerei nei posti passeggeri e non ci accorgiamo che, sugli stessi aerei, non ci sono più bambini, non si sentono più i loro strilli e le loro urla giocose e anche quando li sentiamo, c’è qualcuno che fa facce infastidite.
Natale Forlani, presidente dell’Inapp, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, pochi giorni fa ha sbattuto in faccia alla politica italiana l’amara verità: nei prossimi dieci anni circa 6,1 milioni di lavoratori lasceranno il mercato del lavoro per raggiunti limiti di età, aprendo una voragine demografica che mette a rischio la tenuta del welfare, il pagamento delle pensioni (ricordo che l’Italia ha un sistema a ripartizione), la crescita e la sostenibilità dei conti pubblici. n
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