Duemilacinquecento euro al mese? Ma chi li ha visti?

di Stefano De Martis

Le conseguenze sociali più gravi della Grande Crisi non sono il frutto automatico della mancata o ridotta crescita economica, ma dipendono soprattutto da un problema di redistribuzione del reddito. E’ qui che si annida il germe delle disuguaglianze. La questione è stata sollevata da tempo nelle analisi degli economisti più attenti alle dinamiche reali e ora i dati diffusi dall’Istat, nell’ambito della ricerca europea Eu-Silc su “Reddito e condizioni di vita”, ne forniscono una misurazione puntuale. Dati tanto più significativi perché intercettano l’inizio della ripresa e dimostrano che anche in una fase non più recessiva dell’economia le disuguaglianze crescono invece di diminuire.

L’indagine rivela che nel 2015, per la prima volta dal 2009, in Italia il reddito è tornato a crescere in termini reali, dopo aver subito un riduzione di circa il 12% nel periodo 2009-2013.

Il reddito annuo si è attestato a quota 29.988 euro, circa 2.500 euro al mese, con un aumento del’1,7%. Ma il risultato – spiega l’Istat – è trainato dal “sensibile incremento della fascia alta dei redditi da lavoro autonomo”. In effetti, il risultato medio è dovuto all’aumento della ricchezza del 20% più abbiente della popolazione, il cui reddito rappresenta quasi il 40% del totale. Il 20% più povero ne detiene soltanto il 6,3%. Insomma, la distanza tra ricchi e poveri si è ampliata: il reddito complessivo dei più benestanti era 5,8 volte quello dei più poveri nel 2014, nel 2015 è salito a 6,3 volte.

Si potrebbe obiettare che i dati risalgono al 2015 e nel 2016 la crescita è stata relativamente (molto relativamente) più consistente. Ebbene, i dati sulla povertà nel 2016, ripresi dall’Istat nel medesimo rapporto di qualche giorno fa, documentano che rispetto al 2015 la popolazione a rischio di povertà o di esclusione sociale non solo non è diminuita, ma è aumentata dal 28,7% al 30%. Quasi un terzo degli italiani. E se il peggioramento ha riguardato in percentuale soprattutto le regioni del Nord-Ovest (da 18,5% a 21%), nel Mezzogiorno il rischio povertà coinvolge poco meno della metà della popolazione (46,9%).

Qualche spiraglio, nonostante l’inadeguatezza delle risorse, arriva dall’introduzione del Reddito d’inclusione, il Rei, che diventerà operativo a partire dal 2018, si spera senza i ritardi e le inefficienze che pure è lecito temere anche per la complessità dell’operazione. Ma pur volendo pensare positivo, oltre all’emergenza della povertà assoluta che richiede interventi mirati come il Rei, c’è la questione complessiva del rischio di povertà che necessita di un autentico cambio di paradigma, per citare il titolo di un recente libro di Mauro Magatti. E se parlando di redistribuzione del reddito lo strumento principe è quello fiscale, è dalla famiglia che bisogna finalmente partire per utilizzare in modo nuovo questa leva. Non è un caso che i dati sulla povertà, anche gli ultimi, vedano sempre ai primi posti le famiglie con più figli e che il problema demografico emerga sempre più come il peso che blocca lo sviluppo non solo economico del Paese. Nell’ambito del lavoro, la stessa indagine dell’Istat su reddito e condizioni di vita sottolinea la micidiale incidenza del cosiddetto cuneo fiscale, cioè la differenza tra il costo del lavoro e quel che il lavoratore effettivamente percepisce: nel 2015 la retribuzione netta era poco più della metà del costo totale (il 54%).

Su questo terreno la manovra economica in discussione alla Camera contiene interventi che vanno nella direzione giusta, ma che per le risorse disponibili scalfiscono appena la superficie del problema. I dati trimestrali sul lavoro diffusi dall’Istat in questi giorni, pur nella loro contraddittorietà (tasso di occupazione dal 58,1%, il più alto dal primo trimestre del 2009, ma anche numero record di contratti a termine, 2.784.000, il livello più alto dall’inizio delle rilevazioni nel 1992) colpiscono soprattutto per la diminuzione degli inattivi e l’aumento delle persone in cerca di lavoro. Segnali che non devono essere lasciati cadere, quali che siano i tempi della politica nella prossima legislatura.

Ma la leva fiscale può essere usata proficuamente anche per attivare processi virtuosi nel campo del welfare, messo duramente alla prova dai vincoli di bilancio e dall’invecchiamento della popolazione. In uno studio di qualche settimana fa il Censis calcolava una riduzione del welfare pubblico pari al 4% in termini reali, a cui è corrisposto un incremento molto rilevante della spesa privata delle famiglie (quelle che se lo possono permettere, visto il numero crescente di persone che rinunciano a curarsi). Giuseppe De Rita immagina un sistema unitario in cui accanto alla centralità del pilastro del welfare pubblico venga incentivata la nascita di altri pilastri, in “un contesto istituzionale, normativo e anche operativo in cui la moltiplicazione dei soggetti possa dispiegare i suoi benefici”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA