8 SETTEMBRE L’indecorosa fuga di re e ministri e il coraggio di una generazione

Il commento dello storico Ercole Ongaro

L’8 settembre 1943 è una delle date più cupe e drammatiche del Novecento italiano: alle 19,45 il capo del governo Badoglio comunicò via radio che era stato firmato l’armistizio con gli Angloamericani, tanto atteso dalla popolazione, ma il suo discorso era carico di ambiguità sulle conseguenze che ne derivavano nel nostro rapporto con la Germania.

I Tedeschi, dopo lo sbarco degli Angloamericani in Sicilia (10 luglio) e la destituzione di Mussolini (25 luglio), avevano rafforzato la presenza delle loro truppe in Italia. A spegnere sul nascere la gioia degli Italiani per l’annunciato armistizio fu appunto l’incognita della condotta dei Tedeschi, aggravata dalla mancanza di direttive sul comportamento da tenere dalla popolazione e dai nostri militari nei loro confronti. L’assurdo era che neppure in via riservata il Comando supremo dell’Esercito aveva preavvisato i comandi periferici circa l’imminente cambio di alleanza e diramato ordini sulle modalità di sganciamento dall’ex alleato.

Ancora più irresponsabile si dimostrò il fatto che neppure nelle ore successive al discorso di Badoglio si cercò di riparare all’inadempienza nella comunicazione. Anzi il re e i suoi collaboratori, i ministri del governo, i generali dell’Esercito si dedicarono unicamente a preparare i bagagli per fuggire da Roma: infatti all’alba del 9 settembre intrapresero il viaggio che li avrebbe portati a Brindisi, dove già erano arrivati gli Angloamericani. Con il pretesto di salvare la continuità dello Stato, si preoccuparono di salvare anzitutto sé stessi.

Tuttavia nei momenti più bui della storia talvolta, imprevedibilmente, irrompe l’inatteso, l’impossibile: fu così che dentro la tenebra della diserzione degli uomini delle istituzioni - monarchiche, politiche, militari - una generazione abituata da un ventennio alla sottomissione e all’ubbidienza silenziosa compì la scelta di mettersi in ascolto della propria coscienza, di assumere come orientamento dell’agire la propria umanità: comprese che l’autentico modo di salvarsi è di non trincerarsi nell’interesse individuale ma di avere a cuore anche la salvezza degli altri, di chi è nel pericolo. L’apertura solidale all’altro realizza il senso del vivere. E questo non definisce soltanto quel drammatico 8 settembre di sessanta anni fa, ma rimane la misura etica di ogni generazione e di ogni tempo.

Gli italiani più in pericolo erano in quel momento i nostri militari (un milione e mezzo circa), gli ex prigionieri alleati presenti sul nostro territorio (80.000), gli ebrei (35.000). Tutti costoro erano stati preventivamente destinati dal governo hitleriano alla cattura e alla deportazione in Germania. Ma una significativa parte della popolazione, ascoltando la propria coscienza, scelse di rispondere alla domanda di aiuto di questi perseguitati e di disobbedire ai diktat tedeschi: milioni di persone si prodigarono nell’aiuto ai soldati in fuga dalle caserme per rientrare a casa, agli ex prigionieri alleati e agli ebrei per raggiungere il confine svizzero o restare nascosti sul territorio.

La sera del 9 settembre rappresentanti dei partiti antifascisti diedero vita al Comitato di Liberazione Nazionale, che chiamò gli italiani alla Resistenza contro l’occupante tedesco. Ma prima che, a poco a poco, questo appello divenisse noto alla popolazione, molti cittadini avevano già compiuto scelte di disobbedienza contro le direttive dell’esercito tedesco che stava attuando l’occupazione militare del nostro Paese: affiggendo manifesti con i propri diktat, intercettando militari, ex prigionieri alleati ed ebrei per deportarli, ridando potere ai fanatici del fascismo che avrebbero costituito la Repubblica Sociale Italiana e svolto un ruolo subalterno all’occupante.

La Resistenza fu anzitutto una rivolta morale e politica dei cittadini contro l’aggressione e il dominio nazifascista per aprire un tempo senza guerra, senza discriminazione, senza prevaricazione del nostro popolo su un altro.

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