Pur minuscola, la faliva/favilla con cui abbiamo chiuso la scorsa puntata, come ogni oggetto nel nostro mondo reale, non può avere che tre dimensioni. A ben pensarci però, qualcosa privo di spessore esiste: l’ombra. Ed ecco allora che, all’offerta di un bicchiere di vino, il lodigiano morigerato, il quale - almeno in Quaresima - si astiene dal bere, non risponde “Un dit!” (che sarebbe troppo) e nemmeno “Un gut!”, ma “Un’umbra!”, ossia pochissimo, una quantità addirittura non misurabile. Anche quest’ombra tuttavia non è esclusiva del nostro territorio, perché l’espressione “un’ombra di vino” la troviamo nell’italiano corrente. Pare che questo modo di dire sia nato nel Veneto, regione di antica tradizione vinicola, dove l’ombra corrispondeva a un ottavo di litro di vino, quindi una quantità effettivamente piuttosto piccola, anche se non proprio da astemi d.o.c.Prima però di uscire dall’ustaria concediamoci un altro “assaggio” linguistico, assaporando la differenza fra la guta (d’acqua) e il più apprezzato gut visto sopra. Quest’ultimo termine si riferisce in particolare a bevande, ma mentre alcuni studiosi lo associano a goccio, inteso come quantità minima, altri lo correlano a gotto, che è un tipo di bicchiere di discrete dimensioni e anche un‘antica unità di misura di capacità per liquidi. Una misura che però cambiava di valore risalendo lo stivale: dai 5 centilitri del Regno delle Due Sicilie ai 20 della Repubblica di Venezia!Una terza unità di misura usata un tempo era il sommesso (dal latino semissis, ‘semiasse’), che non è altro che il nostro sumes. Diffusa nell’Italia del nord e in Toscana, corrispondeva all’altezza di un pugno chiuso col pollice alzato: con questo strumento economico, ecologico, e sempre “a portata di mano”, si misuravano all’incirca una quindicina di centimetri. Passò poi a indicare estensivamente una dimensione ridotta, e come tale lo ritroviamo nei dialetti piemontesi e liguri, emiliani e lombardi. L’espressione lodigiana “grand un sumes” significa infatti ‘piccolo’, ‘basso di statura‘.Chiudiamo con le misure del passato ricordando il ghel, corrispondente al centimetro ma usato generalmente per indicare una lunghezza anche minore. Di antiche origini teutoniche (ma ancora oggi la Merkel chiama Geld il denaro, e lo pronuncia gheld), arriva in Lombardia “svalutato” a un centesimo di lira, per poi finire col rappresentare anche uno spessore esiguo (manca un ghel, ‘mancano pochi millimetri’).I lettori che ci hanno seguito pazientemente fin qui nella ricerca in due puntate delle “minuzie” del nostro dialetto, si meritano a questo punto un premio per la loro costanza. Un premio, in tema con l’argomento, che più piccolo non si può: “un nigutin d’or fai sü nela carta d’argent” o, a scelta, “ligad cul nastrin d’argent”. Nigutin è il diminutivo di nigot (o negot, o nagot, a seconda del luogo del ritrovamento), parola diffusa in tutti i dialetti settentrionali. Figlia di un antico italiano negota, è nipote del tardo latino ne gutta, ‘nemmeno una goccia’, cioè proprio ‘niente di niente’.
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