Ci siamo lasciati alcune settimane fa col casül, inteso come preludio del pianto (fà el casül: per l’italiano medio ‘fare il mestolino’). Riprendiamo il mestolo in mano, stavolta però nel senso proprio di ‘arnese da cucina’, ricordando che “aveghe in man el casül” significava ‘avere il controllo della situazione’. Nelle nostre famiglie di un tempo ad “avere il mestolo in mano”, sia in senso proprio sia, spesso, in senso figurato, era la padrona di casa (la regiura), che disponendo del mestolo “...fa la minestra come le pare”, secondo un vecchio detto popolare.
Se il casül è irriconoscibile nell’italiano mestolo, altrettanto lo è la casülera (da non confondere con la casiröla, ‘casseruola’): la casülera è il ‘mestolo forato’ o ‘schiumarola’, arnese per scolare o schiumare chiamato anche, in modo più trasparente, s-ciümaröla.
Rimanendo in cucina accenniamo alla casöla, non l’omonimo attrezzo del muratore (it. cazzuola) ma il piatto tradizionale lombardo a base di carne di maiale e verze, che si richiama alla casiröla in cui la si cucina.
Sempre sui fornelli troviamo la pignata, il cui nome non nascerebbe da pigna come si pensava per affinità di forma, ma dal latino parlato pingui-atta, ossia recipiente adatto a contenere il grasso.
Abbiamo già presentato in altra occasione la curiosa espressione “fà pignatina”, cioè fermarsi a rivedere più volte lo stesso film (con un solo biglietto), nata con allusione alla necessità di portarsi il mangiare da casa, appunto in un pentolino.
In realtà l’autentico “pentolino da viaggio” sarebbe la schiseta, anch’essa già vista e sulla quale perciò non ci soffermiamo.
Se il piatto del giorno è la polenta, non servono però né pentole né pignatte: ci vuole il caldiröl (il paiolo) e, per mescolarla, la canela. Canela dela pasta è invece il mattarello.
Un altro oggetto in legno, dal nome oscuro al di fuori dell’asse Lodi-Pavia, è la mesa: si tratta della ‘spianatoia’, cioè ‘l’asse per impastare’. Suo parente stretto è il mesin, il tagliere. Cugini entrambi della mesa (‘tavola’) spagnola, hanno tutti un antenato comune nel latino mensa.
E, visto che siamo a mensa, non possiamo ignorare la basia, o basla. Parola di accertata provenienza lombarda, è riconoscibile dal Piemonte al Trentino, dall’Emilia alle Marche. Il significato spazia da ‘grossa scodella’ a ‘catino’, da ‘zuppiera’ a ‘vassoio’. In quest’ultimo senso il lodigiano preferisce però il termine basila.
Del passato di basia è certa soltanto la lontana origine latina: secondo alcuni da baiula (‘recipiente per acqua’), secondo altri da vasum (‘vaso’).
Variando le dimensioni o l’uso dell’oggetto anche la parola si trasforma: ed ecco il baslot, il basluton, la basiöla, la basleta...
Già, la basleta: molti fra i miei coetanei ed oltre avranno certamente avuto tra le mani quella “da mundà el ris”, che non era un attrezzo di lavoro delle mondine (le quali in realtà mondavano non il riso bensì la risaia) ma un largo vassoio tondo (di alluminio, e ancor prima di legno) usato in cucina per liberare il cereale da impurità come sassolini, pula ed altro, e dai chicchi guasti presenti nel riso prima dell’avvento della pulitura industriale.
Ma basleta ha anche un’altra curiosa accezione, quella di ‘mento pronunciato’, ed è molto probabilmente di qui che nasce l’italiano bazza, col medesimo significato.
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