La roba dulsa la me slaciüga

Dopo aver diffusamente parlato di gusto e di olfatto, di bocca e di naso - e approssimandosi le festività più consumistiche dell’anno (crisi permettendo) - non possiamo non lasciarci “prendere per la gola”. Il lodigiano doc, notoriamente di buona indole, non prenderebbe però mai nessuno per la gola in senso letterale; e infatti, per evitare ambiguità, davanti a qualcosa di particolarmente allettante lo sentiremo piuttosto esclamare: “me tira gula” (mi ingolosisce), “me va giù la gula” (mi fa venire l’acquolina in bocca), “gh’ò gula de...” (ho voglia di...).Limitandoci a considerare l’attrazione verso il cibo, dobbiamo ammettere che noi lodigiani siamo davvero molto golosi, anzi sgulargion, o “cun la gula lunga”. Fino a che la prelibatezza di cui si abusa “la ven in ödi” (dà la nausea) o, con espressione prettamente nostrana, la slaciüga. Il verbo slaciügà nasce dalla parola lac (‘latte’ - modernamente sostituita da lat), termine che troviamo ancora oggi nell’espressione “el sa de lacion”, ‘sa di latte inacidito’. “El me slaciüga” sta quindi più propriamente per ‘mi nausea per il suo sapore dolciastro’.Un’altra espressione di fastidio, causato da odore acre, fumo, cibi o bevande di sapore pungente, è “el taca in gula”, ossia ‘irrita la gola’.Irritazione che un ospite de föravia potrebbe temere davanti ad un menu che propone le urtis come ingredienti di risotti, minestre e frittate, piatti della cucina lodigiana e non solo. Dovremmo subito rassicurarlo: le urtis non sono le temibili ortiche (lod. urtiga, o bisìa, cioè ‘che punge’) ma i germogli giovani del luppolo, raccolti a primavera ed usati nella cucina povera di mezza Italia. Localmente vengono anche chiamati vertis, luertìis, lovertis e in decine di altri modi: termini che richiamano appunto la cima (lat. vertex) del luppolo.Di piatti dal nome ingannevole ne esistono però altri nella gastronomia lodigiana, e se vogliamo evitare fughe precipitose di turisti all’ora di pranzo facciamone almeno un breve - seppur incompleto - elenco.Partendo dalla specialità di cui abbiamo l’esclusiva, la raspadura, che di “duro” non ha proprio niente, ma è soltanto una italianizzazione approssimativa della nostra raspadüra. Dovremmo tradurre invece ‘raspatura’, trattandosi di soffici foglie di formaggio ottenute raspando la forma di grana con una lama larga impugnata a due mani.E che dire del “risot rugnus” e della “fritada rugnusa”? Piatti che provocano disgusto soltanto a nominarli, perché ci ricordano una malattia della pelle degli animali (e in una sua variante - oggi scomparsa - anche dell’uomo) provocata da acari. Se non ci lasciamo impressionare dalla vista o dall’udito ma ci concentriamo sul gusto, questi saporiti piatti a base di lüganega sbriciolata (salamella) potremo apprezzarli quanto meritano.Non va meglio con il ris in cagnon, riso cotto in acqua e condito con burro, salvia e grana grattugiato. La cottura rende i chicchi simili a bianchi vermetti, appunto i cagnon (o cagnoti). Che sia una specialità del Lodigiano lo riconosce anche Francesco Cherubini, che nel suo vocabolario ottocentesco del dialetto meneghino lo chiama “ris in cagnon, o alla lodesana”. Ma da buon milanese vuol fare le cose in grande, e lo condisce con “burro, aglio, acciughe, cacio, fungherelli, ecc.”, nel tentativo di trasformare il piatto povero dei “cugini di campagna” in un primo da cenone di San Silvestro.Altro piatto locale sospetto sono i “versin in criculon”, un contorno di verze cotte passate al burro, condite con salsa di pomodoro e spolverate con grana grattugiato. In criculon significa “accosciato, accovacciato”, che non è una posizione raccomandabile nemmeno in una cena fra amici d’infanzia. Nel caso delle verze però, “in criculon” sta per “accartocciate”.Possiamo finire senza un dolce? Ecco arrivare in tavola il bisulan, termine tipicamente settentrionale italianizzato in bossolano, per una ciambella - pare originaria di Mantova - fatta con farina, burro, zucchero e talvolta anche uova. Il popolino goloso lo collega a bis, vedendovi nella forma una biscia avvolta su se stessa, o a büs, per il buco al centro. I filologi buongustai hanno invece scoperto in un documento veneto del XIV sec. che l’antenato del bisulan è un dolce detto bozolatus, dal lat. “bucellatum”, a sua volta da bucella, “bocconcino”.Buone feste e buon appetito.

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