La dona da par le l’è un guindul...

Mia nonna Maria aveva un lavoro fisso (e non pagato), quello di casalinga; ed uno precario (ed occasionale), quello di “sarta in casa”. Quando, da bambino, l’andavo a trovare, la vedevo indaffarata ai fornelli con tutto quell’armamentario di pignate e casiröle, basie e gamele di cui abbiamo parlato nelle scorse puntate; oppure alle prese con güge e gügin, utumatici e buton, spagnulete e didai. Che sono gli ingredienti del menu di oggi.Già al mio primo apparire sull’uscio, venivo accolto dalla nonna con un affettuoso “belé fai cul crusé”, espressione che merita due righe di spiegazione. Il crusé lodigiano non è altro che l’uncinetto, piccolo ferro da maglia che non mancava mai nel “cassetto degli attrezzi” delle nostre mamme e nonne. E i lavori fatti all’uncinetto erano spesso così belli e delicati da servire da paragone per un affettuoso complimento da rivolgere a un bambino.Non sarà però sfuggita ai lettori più sportivi l’assonanza del nostro crusé (o voce simile in altri dialetti settentrionali) col termine crochet, nel linguaggio pugilistico il “gancio”: molto meno delicato del lavoro a uncinetto ma anch’esso di provenienza francese. Che poi i francesi l’abbiano ereditato dal latino medioevale croccus, da krokr, parola di ancor più remota origine nordica, mia nonna non lo sapeva, ma ciò non le impediva di usare l’uncinetto con rara abilità.Un altro oggetto che attirava la mia curiosità era il guindul, un attrezzo in legno per dipanare la lana, che girando velocemente su sè stesso permetteva di trasformare la matassa in gomitolo. In italiano si chiama arcolaio o bindolo, meno comunemente guindolo. Un’altra cosa che nonna Maria ignorava, era che già nel 1300 a Roma usavano il guindolus, dal germanico winde. Sapeva invece che “la dona da par le l’è un guindul, l’om da par lü l’è un singul”, espressione di antica saggezza che dice quanto la donna sappia arrangiarsi benissimo anche da sola, al contrario dell’uomo “single”, sciatto e disordinato.E mia nonna si arrangiava, eccome, districandosi abilmente fra asete e buton, utumatici e lampo. Bottoni, automatici e cerniere lampo (oggi, per il piacere degli anglofili, zip, che si fa prima, anche se qualche volta, sül püsé bel la va pü né sü né giù) li riconosciamo tutti: ma le asete? L’aseta, dal latino ansa, non è altro che l’asola, l’occhiello orlato in cui si infila il buton.Quel buton che ogni donna, anche inesperta nel cucito, deve saper attaccare, e non solo metaforicamente (tacà buton sta infatti per ‘intrattenere qualcuno con chiacchiere’). Ma per tacà un buton ci vogliono gügia e fil. Mentre il fil anche le nostre figlie e nipoti digiune di cucito e di dialetto sanno cos’è, la gügia potrebbe rivelarsi un oggetto misterioso, anche se tutto il nord della penisola lo chiama più o meno così.L’assonanza con guglia, ‘cuspide’, può aiutare a risolvere l’enigma: infatti (a)guglia, è voce antica per ‘ago’, dal latino volgare acucula, diminutivo del latino classico acus. Più facile ancora arrivarci raffrontando il lodigiano gügiada all’italiano gugliata, la parte di filo che si infila nella cruna dell’ago. Questo filo viene fornito avvolto su un rocchetto, detto anche spagnoletta (lod. spagnuleta): non perché proveniente della Spagna ma per la sua somiglianza con la spagnoletta, nome dato in passato alla sigaretta avvolta a mano secondo l’uso spagnolo e poi alla sigaretta in genere, ed ora abbandonato.L’uso quotidiano dell’ago richiede un accessorio indispensabile per la protezione dei polpastrelli: il didal, poco originale traduzione dell’italiano ditale. È curioso scoprire come le nostre nonne, secoli prima dell’avvento dei computer, avessero inconsapevolmente già a che fare con il “digitale”, parola del latino tardo da cui nasce appunto il nostro didal.Rimarrebbe da parlare del gügin, ma il tempo stringe. Ai pochi lettori che non sanno che cos’è lascio la ricerca come compito delle vacanze.Buone ferie.

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