Ciciabeghe tra spuse e cavalè

Riprendiamo dopo alcune puntate la “caccia” alla fauna locale per rispondere ad alcuni interrogativi sulla nascita di certe curiose denominazioni. A partire dal ramarro: di taglia small nel santangiolino liö, fino all’extralarge lingalingö del capoluogo. La provenienza del termine, ne abbiamo parlato estesamente in passato, è stata oggetto di ricerca da parte di più di uno studioso. Diffuso nei dialetti di tutto il Settentrione, ne parrebbe accertata l’origine celtica nella forma ligùr, poi differenziatasi nelle tante varianti territoriali. Fra i nomi usati nel Lodigiano, il più aderente all’originale sarebbe quindi, come ha sostenuto su queste pagine Aldo Milanesi, quello che troviamo nella Bassa, ligaligö. Della stessa matrice celtica è il sinonimo ghes (da glas, ‘verde’), arrivato anch’esso all’orecchio dei nostri antenati con le ondate migratorie dei Galli a partire dal VI secolo avanti Cristo.Chiudiamo il brevissimo capitolo dei rettili con il bis rané - in cui anche il profano di dialettologia laudense riconoscerebbe la ‘biscia mangiarane’ - e passiamo ai vermi, come la sanguisuga. Detta popolarmente sangueta in Lombardia e dintorni, nel Lodigiano è nota anche come ciciabega, ossia ‘verme’ (begh, ‘baco’) ‘che succhia’ (da cicià, termine lombardo per ‘succhiare’ - o anche per indicare scherzosamente il vizio di Bacco).Un altro “baco”, ma molto più simpatico e non incline a vizi, è il baco da seta. Un tempo di casa nel nostro territorio - dove la bachicoltura era un’industria fiorente - era battezzato popolarmente cavalé per il suo modo di procedere che ricorda il movimento sobbalzante di un uomo a cavallo.Fra gli ospiti “di casa” troviamo, ahinoi, anche il caröl, oggi costretto alla fame per carenza dell’appetitoso legno naturale di cui si è cibato per millenni. È il tarlo, che i Romani chiamavano carius (parente stretto, linguisticamente parlando, della carie dei nostri denti) e che si è introdotto nei dialetti lombardo-veneti ed emiliani attraverso il tardo latino cariolus. E la panigaröla? Nell’alta Lombardia viene chiamata panuel, giustificandone il nome con la sua diffusione nel periodo della panificazione con farina nuova (“pane novello”). È la lucciola, nel cui nome nostrano potremmo leggere il “tarlo del pane”. Per analogia, con panigaröla indichiamo anche il disturbo della vista che si presenta con una serie di macchie o puntini luminosi.Attenzione però a non a confondere la panigaröla con il panarot, lo scarafaggio o blatta, anch’esso legato etimologicamente al pane (in quanto vorace consumatore di farine e affini) nei dialetti lombardo-veneto-emiliani.Se il panarot provoca disgusto soltanto a parlarne, la spusa (libellula) evoca invece immagini di delicata bellezza. L’appellativo di sposa, sposetta, bella sposa e simili è largamente diffuso, non soltanto nelle parlate popolari. Un genere di libellule è chiamata infatti dagli entomologi damigella (e con termini equivalenti anche da francesi, inglesi e tedeschi), e una specie di queste prende proprio il nome di damigella-sposa.

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