Violenza e amore nella “Pieta” di Kim Ki-duk

La redenzione è come un pugno nello stomaco

Il cinema di Kim Ki-duk colpisce nel profondo. Disturba, agita e lascia sempre un segno, come una di quelle ferite inferte ai suoi personaggi sullo schermo. Pochi fanno film come questo autore coreano che in quindici anni circa ha diretto diciotto pellicole, che sempre ha stupito e in alcuni casi regalato autentici capolavori. Stupore, attenzione, non provocato dallo shock brutale di certe sue immagini, ma da quello ancora più violento delle parole, del senso concentrato dentro le sue storie.

Cosa che accade puntualmente con Pieta, l’ultima opera realizzata dopo una profonda crisi personale e approdata in Concorso alla Mostra del cinema, dove è stata accolta dagli applausi della critica scattati al termine di questo che è un ennesimo viaggio dentro l’animo umano, dritto al centro dei suoi istinti, nei suoi sentimenti più violenti e nei più amorevoli. Messi continuamente vicini e in opposizione, come accade appunto nella natura umana vista con gli occhi di Kim Ki-duk. Protagonista del nuovo film è un esattore della malavita che va a recuperare i crediti in un sobborgo di Seul, dagli artigiani di una zona degradata dove sopravvivono piccole officine meccaniche che resistono all’avanzata dei grattacieli e di un nuovo sistema industriale e finanziario. Spietato e violento, storpia i creditori ormai al limite del fallimento per riscuoterne l’assicurazione e far intascare i soldi al capo strozzino, li spinge al suicidio senza nessun rimorso, muovendosi in un deserto di rapporti e di una qualsiasi relazione che possa considerarsi umana. Fino al giorno in cui compare a casa una donna che sostiene d’essere sua madre, ovvero la donna che abbandonandolo alla nascita ha provocato tutto questo inferno di dolore e di odio.

Espiazione, conversione, l’amore primigenio e una trasformazione che si compie lungo un percorso intriso di spiritualità. Accompagnato dai valori più alti, che a fatica emergono dalla desolazione di questa periferia dell’umanità. Il linguaggio che Kim Ki-duk utilizza è quello noto: disturbante, assoluto, senza compromessi. Colpisce per lasciare un segno in profondità e per sollevare interrogativi, nei personaggi sullo schermo e negli spettatori. Il suo è un mondo disperato ma in continua ricerca: di un senso, anche dove pare non possa esserci, di una ragione. Gli uomini e le donne compiono un viaggio verso una trasformazione, e questa sempre deve avvenire in maniera dolorosa, traumatica. Come accade al protagonista di Pieta, un uomo a cui il regista non dà nemmeno un nome, ma solo un carico di odio che immaginiamo figlio di una pena insostenibile. È dentro il suo sguardo in apparenza vuoto che deve riflettersi il cambiamento, personale e di un mondo intero in movimento. Come quei grattacieli che stanno avanzando “mangiandosi” la città vecchia, simbolo di un sistema capitalistico che sta spazzando quello tradizionale. E con sé tutti i suoi valori.

L. D’A.

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