Viaggio tra i fantasmi del rock

Come un fantasma pallido e lugubre Cheyenne attraversa gli Stati Uniti in

cerca di “un posto”. Indossando una maschera che lo fa assomigliare a un incrocio tra Robert Smith dei Cure e Ozzy Osbourne, in realtà dentro lo stesso fragile costume di Edward Manidiforbice, si mette in viaggio per trovare vendetta per il padre scomparso ma, soprattutto, per riscoprire il vero se stesso, anche se, spiega: «Qui siamo in New Mexico e non in India». Cheyenne è il protagonista di This must be the place, ed è un nuovo straordinario personaggio che si aggiunge alla già ricca galleria creata da Paolo Sorrentino, talento italiano che ha convinto persino il grande Sean Penn a imbarcarsi nell’avventura che (dopo il successo de Il divo) ha dato vita al suo primo film “americano”.

Il viaggio di Cheyenne, rockstar in esilio volontario, dall’Irlanda agli Stati Uniti dunque. Sulle orme della memoria di un padre dimenticato, inseguendo lo spettro di un boia di Auschwitz. In cerca del “posto”, del punto esatto in cui un giorno lontano è sprofondato e da cui poter ricominciare. Riassunta così c’è di che disperare, in attesa di una trama a caccia di originalità a tutti i costi e di scelte fuori dagli schemi. In verità Sorrentino, con la sua quarta opera, va a caccia d’altro: di generi innanzitutto e di riferimenti. I Coen (non solo per la presenza di Frances McDormand) e Wenders (per Harry Dean Stanton e per i colori, i cieli, gli spazi) ad esempio, ma non solo loro. Il regista ancora una volta trae ispirazione, e molto altro ancora, dalla musica, a cui appare legato a doppio filo, ben oltre la citazione del titolo. La musica che ha dato al suo cinema personaggi (a cominciare dallo straordinario Tony Pisapia de L’uomo in più), ambienti e accompagnamenti, qui offre lo spunto con la citazione del brano dei Talkin Heads che poi si trasforma in un’autentica sottotraccia, che accompagna l’intero film lungo tutto il suo svolgimento.

Forse non compiuta, certo imperfetta, quella di Sorrentino è un’opera di una rara suggestione, capace di una sottile forza di straniamento. Un’opera che parla di vendetta e perdono, di genitori ed errori. Di fughe e ritrovamenti insperati. Assai curato nella regia, che ha espliciti debiti con gli autori amati, This must be the place conquista proprio a partire dalle sue “ingenue” sregolatezze, che diventano dirompenti una volta filtrate dello sguardo triste dello straordinario Cheyenne-Penn. Un filosofo dark che ha abbandonato le scene da vent’anni (per senso di colpa?) e cerca di combattere la tristezza, la sua e quella degli altri, con piccoli gesti di grande umanità. Lungo il suo viaggio, davanti a uno specchio o al bancone di un bar come se parlasse del più e del meno riflette sul tempo e sul suo inarrestabile incedere, sulla vita e sui legami familiari. Cerca di ricomporre la sua esistenza, di riscoprire il ruolo di padri, figli, fratelli, seguendo un cammino di riconversione che solo in apparenza risulterà tardivo o improvvisato. Guarda il mondo con uno sguardo ancora puro, nonostante il rossetto e gli eccessi rock accumulati nel tempo, e cerca di trovare una strada e un posto dove finalmente poter stare: forse è per questo che si trascina sempre appresso un trolley dal contenuto misterioso che in realtà probabilmente custodisce semplicemente il suo cambio d’abito…

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This must be the place

regia Paolo Sorrentino, con Sean Penn, Frances McDormand

PRIMA VISIONE - Come un fantasma pallido e lugubre Cheyenne attraversa gli Stati Uniti in cerca di “un posto”. Indossando una maschera che lo fa assomigliare a un incrocio...

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