VENEZIA Holland e quel “confine” del cinema necessario

Concorso: applausi a ”Green border” della regista polacca

Agnieska Holland fa i nomi e ha anche le prove. Il suo Green border (presentato in Concorso alla Mostra 2023) è un atto d’accusa dolente e senza possibilità di fraintendimento, un film che racconta il presente e lascia lo spettatore spesso - drammaticamente - senza fiato.

Siamo al confine tra Bielorussia e Polonia, nel pieno della crisi umanitaria, e la macchina da presa segue con un taglio quasi documentaristico un gruppo di profughi in fuga dal Medio Oriente e dall’Africa che cerca di trovare riparo in Europa. Una famiglia di siriani arrivata in aereo nel Paese e poi lasciata nei boschi al confine con la Polonia, dove le guardie vanno “a caccia” la notte per rispedire uomini, donne e bambini oltre il filo spinato, in un rimpallo di responsabilità tra Varsavia e il Paese di Lukashenko. Una donna scappata dal regime dei talebani che cerca di raggiungere il figlio a Varsavia, migranti africani che provano la rotta di terra scambiandola per la salvezza. Sono la comunità raccontata da Agnieska Holland unita da povertà e paura, saldata dal desiderio di sopravvivenza.

La regista racconta in un bianco e nero rigoroso le loro storie, inquadra i volti, spinge la macchina da presa dentro una cronaca che sembra lontana e invece è vicina, vicinissima a ognuno di noi. «Sono immagini che tutti vedono da 10 anni e nessuno ha fatto niente» accusa a un certo punto uno dei personaggi, una volontaria polacca che presta soccorso ai migranti sul confine, e le sue parole – pesanti come pietre - sono rivolte all’Europa, a chi a questa parte del mondo civilizzato assiste senza muovere un dito alla tragedia umanitaria che dal suo inizio ha già provocato 30mila morti sulle diverse rotte, di terra e di mare. La bandiera azzurra con le stelle in cerchio viene mostrata alle spalle di famiglie in fuga, di bambini lasciati al freddo e senza cibo, così come viene raccontata l’opera dei tanti volontari che si prodigano per prestare soccorso, per limitare in qualche maniera il danno incalcolabile. La regista evidentemente non ha le risposte, ma non ha paura di porre le domande. Il suo è un cinema urgente, necessario, civile come non si trova spesso, coperto com’è da una massa di immagini, da un flusso ininterrotto di informazioni che rischia di trasformarsi in rumore di fondo. Nel mirino finiscono la propaganda dei governi, la disumanità diffusa a cui pare non esserci freno, l’immobilismo della politica davanti a una tragedia immane che non può essere taciuta.

In chiusura il film si sposta su un altro confine, quello tra Polonia e Ucraina, per mostrare altre persone in fuga, altre lacrime, altre separazioni. E alcuni di quegli stessi volontari polacchi che qui stanno portando la loro opera. Dall’inizio della guerra e dall’invasione da parte della Russia sono 2 milioni gli ucraini che hanno trovato riparo su questo versante, scrive la regista sui titoli di coda. Senza abbassare. ancora una volta, lo sguardo.

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