Vecchi e nuovi mercanti di schiavi

Nel 1841, prima della guerra di secessione, Solomon Northup, violinista, è un uomo di colore che vive libero nella contea di Saratoga (nello stato di New York) con la moglie e i figli. Ingannato da due falsi agenti di spettacolo, viene rapito, privato dei documenti e portato in Louisiana, dove rimarrà in schiavitù per 12 anni, lavorando nelle piantagioni di cotone. 12 anni schiavo è la sua storia, che il regista Steve McQueen ha tratto dalla biografia che a metà dell’Ottocento ha rivelato questa incredibile vicenda.

Quella della schiavitù è una delle ferite aperte della storia americana, probabilmente la più importante se è vero che i grandi autori continuano a raccontarla al cinema (il Lincoln di Spielberg e il Django di Tarantino da prospettive completamente diverse solo per citare gli esempi più recenti). Steve McQueen nelle interviste ha paragonato il libro di Solomon Northup al “Diario di Anna Frank”, considerandolo fondamentale per capire e recuperare la memoria e la storia del Paese e il parallelo con l’Olocausto è presente nel suo film, in tanti momenti, nella descrizione dell’orrore cieco come in alcuni personaggi.

Candidato a 9 premi Oscar 12 anni schiavo si concentra sul periodo della prigionia di Northup, scegliendo una chiave di “verità” che vuol essere disturbante per colpire nel profondo lo spettatore. Si riconoscono in questa nuova regia alcune delle caratteristiche che hanno reso celebre l’autore di Hunger e di Shame, uno dei più apprezzati dalla critica e amati dai festival: il lavoro sul corpo ad esempio, la scelta di inquadrature e sequenze di grande bellezza (anche se questo film è distante anni luce dalla complessità dei due citati).

La ricerca del dolore della frustata, il rumore, il sangue, in realtà però finiscono per frenare il film, tolgono il respiro allo spettatore ma anche al suo autore. Emblematico è in questo senso è lo spietato proprietario terriero Epps interpretato da Michael Fassbender autentico alter ego del regista - straordinario e “indispensabile” appunto in Hunger e Shame, grande attore che questa volta non riesce a ripetere l’impresa, frenato forse in un personaggio che non mostra molto altro oltre la sua ferocia (il paragone dovrebbe esser fatto con la lucida follia del comandante Amon Göth di Schindler’s List per tornare all’olocausto).

Colpisce invece, soprattutto nella prima parte (quella del rapimento) la straordinaria attualità del film che descrive i mercanti di schiavi come se il tempo non fosse passato. La sequenza della barca che porta al Sud il suo “carico“ ad esempio dovrebbe ribaltare le coordinate geografiche e mettere noi europei in grande imbarazzo. Qui, in queste sequenze, quello di McQueen diventa un film sulla perdita di identità e sull’annientamento della volontà che non è più legato “semplicemente” all’America della metà dell’Ottocento ma è molto di più (molto bravo è ad esempio Paul Giamatti in una parte “scomoda” come quella del mercante di uomini, non semplice da accettare). Peccato poi che il regista in altri momenti prenda un sentiero che trasforma il suo film in qualcosa di assai più convenzionale. La storia di Solomon Northup viene raccontata nelle due ore di film soprattutto nella parte della prigionia nei campi di cotone, lasciando alle didascalie finali l’esito della battaglia legale (persa) intrapresa dall’uomo dopo la liberazione. Una sottolineatura finale che comunque ha il pregio di riportare bruscamente lo spettatore all’attualità, e che in un lampo ribadisce l’importanza (di più: la necessità) di lettura del passato per comprendere il presente.

PRIMA VISIONE Nel 1841, prima della guerra di secessione, Solomon Northup, violinista, è un uomo di colore che vive libero nella contea di Saratoga...

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