Un “Ritratto di famiglia” nella tempesta della vita

Un nuovo tifone è in arrivo (l’ennesimo dell’anno) ma non è questo che ci deve preoccupare… C’è tutto il cinema di Hirokazu Kore-eda in questa scena iniziale: un interno domestico, una cucina, e un dialogo fitto tra madre e figlia che dal semplice quotidiano sconfina nella filosofia: cose minime, ricordi, le notizie del giornale radio che si intrecciano con il cibo che cuoce sui fornelli e con i quesiti irrisolti di una vita («alla mia età farsi nuovi amici significa andare incontro a più funerali»). E non abbiamo ancora visto nulla o quasi, non abbiamo saputo niente dei protagonisti di questa storia, anche se sappiamo quasi tutto. Molto di quello che ci aspetterà.

Benvenuti nel cinema di Kore-eda, il regista giapponese di Father and son che con Ritratto di famiglia con tempesta aggiunge un piccolo grande tassello alla sua filmografia sempre più vista e apprezzata oltre i confini (illuminati) del “far east”.

C’è una tempesta in arrivo (After the storm la traduzione inglese che riporta alla mente Linklater) ma nella quiete che la precede dobbiamo contare già parecchi danni: a cominciare da quelli che si trascina dietro Ryota, scrittore che dopo un romanzo premiato non riesce più a trovare l’ispirazione ed è costretto a fare il detective privato per sopravvivere. In più è uno scommettitore patologico e vive una separazione traumatica dalla moglie, che gli consente di vedere il figlio piccolo solo una volta al mese. Genitori, figli, rapporti che si sfilacciano, ricordi che mettono insieme tutto, memoria, elaborazione del lutto: la madre ha buttato via ogni cosa dopo la morte del marito, anche se poi sente la sua presenza nelle passeggiate quotidiane, la moglie ha un nuovo compagno che ha pure letto il suo libro «ma non ha capito il messaggio». Kore-eda “gioca” con i particolari minimi (all’apparenza) per comporre un grande ritratto. Intimo, personale, straordinariamente realistico, denso di umanità e di una speranza che si coglie tra le pieghe del racconto, mano a mano che le cose accadono. Il regista ricompone una parte del cast del suo Father and son (la madre, la straordinaria Kirin Kiki e la bellissima Yōko Maki) da cui sembra anche partire per le riflessioni principali di questo nuovo film. A cui aggiunge la figura del protagonista Ryota (un Hiroshi Abe che si dimostra bravissimo e versatile) un “perdente” da romanzo classico, un “loser” abituato alla sconfitta che però stavolta teme di perdere la cosa più importante. «I tifoni fanno piazza pulita» ma poi quando arrivano c’è la certezza che dopo tornerà il sereno. Kore-eda dirige e racconta senza quasi entrare nella scena, sfiorando i personaggi e gli ambienti per andare diretto ai temi che lo interessano: i rapporti tra generazioni in un Giappone che si trasforma, l’importanza della memoria. Tutto in un dialogo curato al millesimo di secondo in cui convivono il particolare e l’assoluto. E sullo sfondo (ma non troppo) passano immagini pescate chissà dove dai ricordi personali (le case popolari, uno scivolo blu a forma di polipo in cui nascondersi dalla tempesta…). Per scoprire che forse «non potrai trovare mai la felicità», ma che «in fondo la vita è semplice» e questo pensiero bisogna appuntarselo e ricordarselo per non lasciarlo fuggire mai.

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