Un Nabucco straordinarionella prova di Leo Nucciper i 150 anni dell’Unità

«Eadesso colleghiamoci con il Teatro dell’Opera di Roma per ascoltare il Nabucco di Muti». È un chiaro lapsus, quello sfuggito a Giovanni Minoli dagli studi di RaiTre , ma come tale estremamente freudiano. Lo scorso 17 marzo il Nabucco romano trionfalmente aperto con un vibrante “Inno nazionale” aveva il sapore dell’italianità per antonomasia: il Risorgimento nascosto sotto la patina del polpettone storico firmato Solera, l’anelito alla libertà e alla vita espresso dal compositore nel cui nome una nazione ancora da farsi già si identificava come in un comune alfabeto. Sul podio, nonostante i recenti problemi di salute, il Direttore che come nessun altro dell’Italia è ambasciatore nel mondo. A dire il vero, il collegamento con il Teatro aveva la sola diretta dei momenti a margine, a partire dall’arrivo dei presidenti Napolitano e Berlusconi, mentre ad essere trasmessa è stata la replica dello scorso 15 marzo quando dal podio, prima di bissare un Va’ Pensiero con tanto di invito a cantare esteso al pubblico, Muti aveva lanciato il suo anatema sui tagli alla cultura. Allora, come nella cruciale data dell’altra sera, nel ruolo del sovrano babilonese era un inossidabile Leo Nucci sul quale Roma ha voluto puntare come si fa nei momenti che contano sui cavalli di razza. Accanto a lui la strepitosa Abigaille di Csilla Boross, per statura e bellezza di voce unica degna comprimaria del baritono lodigiano. Nella scarnificata scena allestita da Jean Paul Scarpitta, i loro erano i soli personaggi ad avere in pugno la buca e a piegarla alla plasticità del loro dire. Lei, la schiava creduta figlia del re di Babilonia, aveva lo scintillio di una tecnica assoluta in ogni tessitura, il fraseggio guizzante nel delineare per contrasti vivi il profilo della sua anima spaccata tra furore e mestizia. Lui era invece personaggio metamorfico che redime se stesso con il supremo gesto della conversione: se Abigaille è magmatico ribollire in ogni sua sillaba, Nabucco è sentenza senza appello, lama che finisce. Quando Verdi ne incontra la vicenda, sono gli anni ’40 di un Ottocento ancora in salita; le grandi rivoluzioni covano, il melodramma è tutto arie e cabalette con l’orchestra tratteggiata a mero tappeto per lo sfoggio delle voci. Eppure basta accostarsi a questo primo grande vecchio del catalogo verdiano per capire quanta profezia si celi nel suo canto già così introspettivamente scavato. Da empio, Nabucco pare trovare sul suo cammino gli accenti dei padri che verranno, la fierezza di Germont, la nobiltà di Miller, la sofferta solitudine di Foscari per non citare l’alter ego Rigoletto. Da mezzo secolo Nucci passeggia nelle stanze verdiane, percorrendo i destini di quegli uomini di cui può ben dirsi fratello di sangue, ne esplora le reazioni al passo di una voce che il tempo sembra miracolosamente adattare alla musica. Quando il cielo si squarcia e del terribile sovrano rimane una larva spaurita, la tensione drammaturgica di quell’attonito ritmo puntato sembrava sul punto di scoppiare; solo in una memorabile Dio di Giuda l’allucinata controfigura ritrovava i panni del sovrano antico, l’ampiezza di respiro, la morbidezza dell’accento che strappano a Roma e all’Italia tutta un minuto di ovazioni. Per il resto, tutto scorre sotto il gesto militaresco di Muti, che imbriglia l’orchestra come in una forzata marcia dimostrativa. Già l’Ouverture, con quel corale intriso di devozione e di spiritualità, filava via leggera e quadrata, tirata a lucido ma incapace di tratteggiare il perimetro emotivo attorno a cui la vicenda di un popolo ridotto in schiavitù si snoda. Allo spessore di un humus armonico che a tratti, nei cromatismi affidati al coro, pare già guardare alla suprema luce del Reqiuem, al gioco tutto in terza dimensione di una strumentalità che entra ed esce, come ago nella tela, dalle voci, Muti privilegiava il geometrismo delle linee, la marziale speditezza dei tempi, il galoppo sferzato. Quando i clamori cedevano alla nostalgia della perduta Patria, Va’ pensiero affiorava stanco, pesante e strascicato nella tenuta, mai capace di prendere il largo e di alzarsi ad emozione che strega. Applausi e commozione, in sala come in milioni di salotti italiani. Sul palco, gli artisti stringevano uno striscione contro la falcidie finanziaria caduta sulla musica. A proposito, quanto sarà stato il cachet del Direttore?

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