Tutto esaurito per Daverio

Alle 20.30 la sala delle Vigne è già strapiena, compresi i “cubi” di legno ai lati della platea. La simultaneità della presenza a Lodi del rocker Luciano Ligabue non ha impedito a un pubblico molto eterogeneo, certo non tutto lodigiano e non specialista in questioni di storia dell’arte, di mettersi in coda per incontrare Philippe Daverio, a Lodi per presentare il suo libro Il museo immaginato, uscito l’anno scorso edito da Rizzoli. Questa affluenza eccezionale di pubblico è un segno duplice: da un lato testimonia la “fame” di cultura che ultimamente sembra caratterizzare questa Italia in faticosa risalita da una crisi che lascia poco spazio a ciò che non è strettamente necessario (e l’evento di ieri è una dimostrazione che la cultura lo è); d’altra parte è una conferma della grande abilità di divulgatore di Daverio, intellettuale dalla personalità poliedrica, eccentrico e affascinante conversatore, conoscitore raffinato del patrimonio artistico italiano. Ed eccolo, il professor Daverio: entra dall’uscita di sicurezza, perché intanto fuori, nel corridoio d’accesso al teatro e lungo tutta via Cavour, si accalca un numero di persone forse equivalente a quello contenuto nella sala, che non si arrende all’idea di non poter entrare. L’ospite, salito sul palco, propone di far entrare altre persone e ospitarle in palcoscenico, ma le ragioni della sicurezza hanno la meglio. E dunque comincia a parlare prima di televisione, poi il discorso si sposta sulla storia dell’arte, mettendo bene in chiaro che lui si definisce un dilettante e perciò esprime la sua preferenza per quelli che chiama i “pettegolezzi” che stanno dietro e dentro le opere d’arte. Parla del suo libro, dove immagina una casa-museo in cui trovano posto centocinquanta quadri che caratterizzano le diverse stanze della casa; ma poi, liberamente come sua consuetudine, si sposta su concetti più generali, affermando che «è necessaria una continua rilettura e rivisitazione anche dei concetti che sembrano indiscutibili, perché mettendo in discussione gli schemi acquisiti la vita diventa più divertente». L’idea che gli preme di più riguardo ai musei, comunque, è che quando si entra in un museo bisognerebbe guardare una sola opera alla volta, non accumulare una visione superficiale e distratta di tutto quello che il museo contiene: «Ai dovrebbe andare in una pinacoteca come si va in biblioteca: non si guarda il dorso di tutti i libri, ma se ne sceglie uno e lo si studia. Lo stesso è per la musica: non posso ascoltare tutto Verdi in un solo pomeriggio». Perché il rapporto con un quadro è qualcosa di personale e di profondo: «Se si guarda tante volte, un quadro parla con noi; ed è proprio per questo che il passato ci interessa, perché è contemporaneo, perché è in grado di dialogare con noi oggi». Daverio prosegue nel suo percorso apparentemente casuale, dove con leggerezza quasi frivola accosta George Sand («quella signora che ebbe una tresca con Chopin e che fumava la pipa»), i cardinali del Seicento, la Firenze dei Medici e i cagnolini raffigurati in diversi quadri di Tiziano. Ma la frivolezza è solo apparente, e spesso le sue osservazioni aprono dimensioni interpretative inedite e stimolanti, fuori dagli schemi: un invito a gustare l’arte come uno dei piaceri della vita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA