Torelli, il cronista a caccia di belle storie

Come un entomologo a caccia di farfalle damascate. Armato di penna e taccuino, ma soprattutto di fiuto per trovare negli angoli più sperduti e imprevedibili del pianeta storie in grado di regalare un sorriso, capaci di suscitare speranze, di interrompere la catena del peggio in cui - giornalisti e lettori - sembrano essersi ormai legati mani e piedi.

Giorgio Torelli, classe 1928, cronista di razza con un passato da reporter nei maggiori quotidiani e settimanali italiani (fu tra i fondatori del «Giornale» con Montanelli), è stato soprattutto questo: un raccoglitore e fine raccontatore di storie, di belle storie; un «inviato del controcanto». E come tale emerge dal suo giovane emulo lodigiano (e collaboratore di queste pagine proprio con una rubrica di “Storie” - di frontiera), Stefano Rotta, che gli ha dedicato il suo nuovo volume: Stefano Rotta racconta Giorgio Torelli. Inviato molto speciale, pubblicato da Edizioni Graphital con un ricchissimo corredo iconografico.

Il volume è una sorta di autobiografia per procura, frutto delle chiacchierate settimanali condotte dal cronista lodigiano e dal suo più noto collega emiliano nell’abitazione milanese di questi. Unica regola, nessuna regola: «Stefano, in questo libro ci scriverai quello che vuoi» ha sentenziato infatti Torelli davanti alle normali cautele avanzate dal più giovane cacciatore di storie. Di qui il diluvio di ricordi selezionati da Rotta dopo aver scartabellato migliaia di appunti, ricomposti in una prosa vivace e avvincente, che consente di seguire la carriera dell’inviato attraverso le vicende più intriganti e interessanti della sua lunghissima carriera professionale.

Fra le figure ricordate da Torelli c’è spazio anche per un lodigiano “doc” quale Beppe Novello, artista e vignettista di vaglia nel primo Novecento. Così ne parla, cogliendo anche gli impulsi più intimi dell’intellettuale codognese conosciuto in tarda età: «Si aggirava intorno alla fede. Ne cercava la confidenza, ma restava lontano dal credere. Aveva più di novant’anni, quando gli si paralizzò il braccio destro e tentò di dipingere con la sinistra. Nella avita casa di Codogno non c’era la sorella nubile, e pianista - Carlotta detta Lotti - che Montanelli chiamava “l’ultima signorina italiana”. Si circondavano di un giardino riservato e denso di affettuosi fiori, che, fingendo di ignorare i nomi botanici, definiva papillonacee. Novello aveva voluto conoscermi, eravamo diventati amici confidenziali. Un giorno andai e rivederlo in quel di Codogno[...] Parlammo a lungo e mi confidò: “Qui nella mia solitudine ci sono pomeriggi quando comincia a far buio in cui don Gnocchi mi viene a trovare”. Compresi subito che cosa voleva dire. In Russia, il capitano Novello aveva visto all’opera il cappellano tenente don Gnocchi. Era rimasto ammirato e persino sconvolto da tanta dedizione cristiana. E adesso, sentendo prossimo l’addio, sperava che don Gnocchi gli tenesse la mano nel tragitto fra Terra e Cielo[...] Non ancora sapeva dire: in Paradiso rivedrò don Gnocchi. Nell’intimo lo pensava».

Nella seconda parte del libro Rotta raduna gli scritti di altri - colleghi, intellettuali, scrittori, financo cardinali - su Torelli e fra questi c’è spazio per un altro lodigiano (d’importazione), anch’egli collaboratore del «Cittadino», Eugenio Lombardo. Suo un ricordo toccante e ammirato del cronista emiliano, la cui scrittura - rammenta Lombardo - lo ha folgorato e affascinato in giovane età, convincendolo a emularne lo stile terso e piano. «Torelli - chiosa il cronista siculo-lodigiano- è rimasto il mio mito: una frequentazione già lunga quarant’anni. Mi capita spesso di dirlo, ma io sono cresciuto a pane e giorgiotorelli. Ed è stato un bel crescere, perché ho imparato tanto. A guardare i trasalimenti del cuore, come direbbe lui, e ad osservare il Cielo».

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