Tito Boeri e un Paese per vecchi:

«L’Italia che non punta sui giovani»

Lucido e concreto: sono i primi due aggettivi che vengono in mente dopo aver assistito all’intervento intitolato “Contro i giovani?” dell’economista Tito Boeri per il primo incontro del ciclo organizzato da Meic e da Adelante (insieme a Comune, Provincia, Regione e a Radio Lodi che ha trasmesso in diretta la serata), dal titolo “Il lavoro mobilita l’uomo”. Al centro della serie di appuntamenti ci saranno alcuni temi che, seppur dominanti nell’agenda quotidiana di molti di noi, risultano clamorosamente trascurate da quella della nostra classe politica: “giovani”, “lavoro”, “crisi economica”, “precariato”. Il docente della Bocconi e anima del sito lavoce.info ha tenuto banco per un’ora e mezzo rivolgendosi a una platea, quella dell’aula magna del Verri, tanto attenta quanto, paradossalmente, adulta. Solo una, la più lampante, delle contraddizioni del Paese ritratto da Boeri, in cui sono molte le domande e poche le risposte, comunque spesso sbagliate.

«Il nostro è uno dei paesi al mondo in cui le famiglie sono più attente e premurose nei confronti dei figli, tanto che c’è il fenomeno dei bamboccioni. Peccato che questa attenzione e dedizione finiscano non appena varcata la soglia di casa. Fuori, nel mondo vero, nessuno tutela o aiuta le nuove generazioni». Anzi chi ha meno di quarant’anni, viene trattato piuttosto male.

«Il nostro Stato investe circa metà del suo bilancio in pensioni e meno del 13 percento in formazione e ricerca. Non solo - continua l’economista - i nostri studenti risultano ben al di sotto della media Osce per quel che riguarda le loro conoscenze in tutte le materie, e particolarmente in quelle scientifiche. La scelta dell’ università viene vista spesso in modo miope, come il coronamento delle proprie passioni piuttosto che come un investimento per il futuro». Insomma è un intero sistema di cose che non funziona e porta a una strozzatura di tutto i sistema economico: «I redditi dei giovani non crescono. Chi ottiene un contratto e ha meno di 40 anni, non lo fa quasi mai per un contratto a tempo indeterminato. Chi assume giovani lavoratori lo fa con la tacita consapevolezza che se le cose dovessero mettersi male saranno i loro posti i primi a saltare. Per questo nessun datore di lavoro investe più nella formazione dei dipendenti».

Le ragioni del fatto che l’Italia non sia un paese per giovani sono nella «mancanza di un contratto unico, a tempo indeterminato e a tutela progressiva; la mancanza di un’organizzazione meritocratica all’interno della nostra università; l’assenza di peso elettorale dei più giovani che fa si che la classe politica non li corteggi e per superare al quale sarebbe bene aprire il bacino elettorale ai sedicenni. Così chi si candida alle elezioni, in un sistema che auspico di nuovo maggioritario, sarà costretto a inventarsi qualcosa per conquistarli».

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