Terzani e quelle parole affacciate sull’infinito

Un uomo, vestito di bianco, e al suo fianco il figlio, magro, giovane. Sulla cima di una montagna, a parlare. In tanti, tantissimi, prima d’ora avevano dato una forma a questa immagine, ricostruito i colori, i contorni dei volti, dato un ritmo alle parole e ai silenzi. Ognuno la propria, come accade con le parole lette su libri diventati qualcosa di più di un romanzo. Avevano aggiunto o tolto rumori, luci, profumi. È una sfida impegnativa quella accettata dal regista tedesco Jo Baier con La fine è il mio inizio, coraggiosa perché non c’è materiale meno cinematografico di un libro fatto solo di parole e di dialogo, così come non può esistere al mondo un’altra esistenza più spettacolare e affascinante e, ovvio questa sì cinematografica, di quella di Tiziano Terzani, grande giornalista, inviato su tutti i fronti più caldi della terra, a seguire guerre, rivoluzioni, tragedie che hanno modificato il profilo del mondo.

Nasce da questo stupefacente ossimoro La fine è il mio inizio, il film basato su uno dei libri di Tiziano Terzani, portato sullo schermo grazie a una co-produzione tra Italia e Germania e basato su una sceneggiatura costruita sui dialoghi tra Tiziano Terzani e il figlio Folco, che avevano dato vita al libro che porta lo stesso titolo.

Non c’è cosa più difficile al cinema del raccontare il silenzio. Concetto “rubato” a Clint Eastwood, che attribuiva questa dote al suo maestro John Ford, e che torna valido anche per affrontare questo film complesso e difficile che sin dalla partenza conteneva una doppia sfida. Non tradire il contenuto dell’opera letteraria a cui è ispirato, e non deludere i milioni di lettori che quell’opera hanno letto, trasformandola in un autentico libro-culto dei nostri tempi.

Un’opera in cui si parla del tema più difficile in assoluto, di un senso da dare alla vita, in cui si cercano parole per replicare alle domande universali e in cui si abbozza anche qualche risposta, che prende vita dalla testimonianza di Terzani che, dopo aver attraversato il mondo intero, studiato l’Occidente e l’Oriente si sistema sul ciglio di una montagna italiana per condensare e ripensare tutto quanto, fino a restituire una sua personale visione delle cose, una sua “filosofia”.

Fin qui il libro, che non aveva bisogno di altre parole, e da qui comincia la sfida del film, difficile, raccolta in maniera onesta dagli autori, che hanno saputo restituire quello che si poteva senza stravolgere il contenuto alto e complesso di quei diari. Un testo che, per i temi che affronta, poteva diventare un’autentica bomba a mano, messa nelle mani sbagliate. Invece La fine è il mio inizio, al cinema, ha una sua ragione d’essere, non è ricattatorio, azzecca i tempi e i modi, a cominciare dal volto intenso del bravissimo Bruno Ganz (e con lui anche Elio Germano nel ruolo di Folco) che pare quello ideale per restituire una forma cinematografica a tutte quelle parole, alle riflessioni sulla vita e sulla morte, sulla memoria e sulla ricerca spirituale che dovrebbe condurre ogni esistenza sensata. Paradossalmente il regista, gli sceneggiatori, avrebbero dovuto “asciugare” di più, lavorare più in sottrazione per rispondere alla “lezione del silenzio” citata poco sopra. Per tenere il passo del libro e dare una forma personale al testo. E per contribuire, ce ne fosse stato bisogno, a chiudere quel cerchio che Terzani ha provato a disegnare, «con grande concentrazione», chiuso nella sua personalissima “cella” affacciata sull’infinito.

PRIMA VISIONE - Un uomo, vestito di bianco, e al suo fianco il figlio, magro, giovane. Sulla cima di una montagna, a parlare. In tanti, tantissimi, prima d’ora avevano dato una forma a questa immagine, ricostruito i colori, i contorni dei volti, dato un ritmo alle parole e ai silenzi...

© RIPRODUZIONE RISERVATA