“Suburbicon”, il buio nascosto oltre la siepe del sogno americano

Il sesto film da regista di Clooney presentato in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia

Ha giurato, di recente, che non è la carriera politica che gli interessa. Che non sarà lui un giorno il candidato presidente degli Stati Uniti. Non ha mai nascosto le idee, l’appoggio ai Democratici, ma la candidatura resta un’altra cosa… Intanto però di “politico” c’è molto - ancora una volta, dopo Good Night, and Good Luck o Le idi di marzo - nel suo cinema da regista, un impegno mascherato in questo caso in una commedia nerissima, che ha diretto partendo da un’idea dei fratelli Coen (che firmano la sceneggiatura del film assieme a Grant Heslov che è anche tra i produttori).

Mescola realtà e fantasia George Clooney nel suo sesto film da regista partendo dalle casette a schiera della Suburbicon del titolo (nella realtà era Levittown, costruita in Pennsylvania): villette tutte uguali e destinate alla middle class bianca (e xenofoba) che nel secondo dopoguerra era in fuga dalla città e in cerca di un nuovo sogno americano. Su un episodio vero (l’aggressione a una famiglia di colore trasferitasi in quella zona residenziale) Clooney innesta la sua storia, un progetto che i Coen avevano lasciato nel cassetto e che il regista reinterpreta con un gusto cinefilo spiccato e omaggiando in maniera esplicita il cinema dei geniali fratelli ispiratori. Un cordone ombelicale che resta fin troppo evidente man mano che la storia evolve e che rischia d’essere un freno per il suo sviluppo.

Il tratto grottesco dunque scelto per raccontare le inconfessabili verità che si nascondono dentro le case di Suburbicon, nelle strade e nelle geometrie precise di vialetti e giardini in cui vive una comunità che teme il diverso e non trattiene più la propria intolleranza quando ad abitare in questo angolo d’America arrivano i Meyers, una famiglia di colore. Peccato però che il “mostro” non stia lì ma nascosto molto più in profondità, e che gli abitati di Suburbicon troppo impegnati ad alzare lo steccato attorno alla casa sospetta si lascino sfuggire la vera natura di ciò che sta accadendo tra loro. Insomma, una perfetta metafora dei nostri giorni e un tema di rara attualità che Clooney sa declinare senza smarrirsi, citando il cinema dei Coen, si è detto, ma ritrovando anche una vena caustica che sembrava essersi smarrita.

Suburbicon parla dell’America e dei nostri tempi con rara cattiveria, scopre le crepe che nel frattempo si sono aperte in un sogno americano che è fondato sulla promessa di prosperità per tutti ma in realtà nasconde un’anima oscura. Il baseball, i capelli a spazzola, l’erba tagliata e le torte da portare ai nuovi vicini. Poi le staccionate che finiscono per chiuderti dentro con il male (che «non si può prevedere in anticipo», non si può sapere dove sta nascosto). In una tensione crescente Clooney abbandona piano piano la commedia per assecondare le atmosfere dark e sviluppare la storia del grigio Gardner Lodge, capofamiglia e vicino di casa dei Mayers.

I personaggi e le atmosfere sono in debito diretto del Coen touch, regista e autori hanno lavorato sui colori, sui volti e nella scelta degli interpreti senza sbagliare praticamente sulla. Ciò che manca alla fine di tutto è però proprio il genio che spiazza e che è insito in quel modello a cui si fa riferimento, mentre la morale suggerita dal regista viene spiegata con fin troppa precisione. Mentre sullo schermo si allunga il buio, come ombre nerissime “oltre la siepe”.

Lucio D’Auria

Suburbicon

regia George Clooney

con Matt Damon, Julianne Moore

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