“Spotlight” e la luce della verità

Il «Boston Globe» vinse il Premio Pulitzer nel 2003 per questa inchiesta. Per l’indagine sugli abusi sessuali sui bambini commessi dagli anni Settanta ai Novanta da alcuni sacerdoti dell’arcidiocesi di Boston. A portarli alla luce fu la squadra “investigativa” di quel quotidiano, il team “Spotlight” che dopo un lungo lavoro di indagine individuò 87 casi di abuso e portò con il suo lavoro - pubblicato nel gennaio del 2002 - alle dimissioni del cardinale Bernard Law, che negli anni aveva “coperto” di fronte all’opinione pubblica la verità dei fatti, limitandosi a trasferire e spostare da una parrocchia all’altra i preti colpevoli.

Spotlight, diretto da Tom McCarthy, è un film sull’importanza di tenere accesa “la luce” della verità (spotlight appunto), una storia che ricorda quanto sia importante non derogare mai alla propria missione – quella di sacerdoti, ma anche quella di giornalisti o di avvocati – che non va in cerca di colpe da distribuire, ma anzi è assai più interessato a ricostruire il circolo virtuoso di un buon lavoro, di un’opera portata a termine senza risparmiarsi e senza derogare ai propri principi. Non sono supereroi i giornalisti del «Globe», non lo diventano mai nel film di McCarthy che li disegna anzi come normali professionisti, con timori, dubbi, fragilità, anche con le loro responsabilità.

Il regista sembra aver mandato a memoria la lezione dei grandi film di inchiesta – da Tutti gli uomini del presidente in giù - le dinamiche, la costruzione del racconto, persino i gesti. Ha messo insieme un cast di primissimo livello, guidato da Michael Keaton che sta vivendo un’incredibile seconda giovinezza artistica, e in cui spiccano Mark Ruffalo (ma la sua è una conferma), John Slattery e Stanley Tucci ormai il più bravo in assoluto a vestire i panni di personaggi “di contorno” che si trasformano in autentici giganti sulla scena.

Non devono apparire scontate (legate al clamore che il film ovviamente ha suscitato) le sei candidature all’Oscar che comprendono miglior film, regia e (probabilmente la più meritata) miglior sceneggiatura. Il pregio di Spotlight è l’equilibrio che sa mantenere, narrando fatti delicatissimi. Quella di McCarthy è una storia che provoca dolore, prima che scandalo. Il regista non indugia, non ricatta lo spettatore, racconta e srotola i fili dell’inchiesta per riannodarli con lucidità e conservando grande rispetto, per la fede innanzitutto. Sottolinea le responsabilità, con forza, e non dimentica quelle di chi è stato in qualche maniera complice («Sono due le storie da raccontare - dice a un certo punto il direttore -: una è quella degli abusi, l’altra è quella di chi ha coperto», e fra questi mette in testa i giornalisti stessi…).

Dolore: sembra questo il sentimento che vuol trasmettere il film, non facendo facile sensazionalismo, non urlando le responsabilità, ma sottolineandole con la potenza della verità dei fatti («accaduti realmente», scrive sui titoli di testa e non c’è bisogno poi di ribadirlo ulteriormente). Sono tante le vittime di questo “caso”: innanzitutto i bambini abusati, ed è per loro che il regista ha più riguardo. Ma McCarthy non dimentica di rendere ben visibile il dolore di chi, tra i cattolici, ha scoperto una verità che non poteva nemmeno immaginare, ha visto calpestata («rubata» si dice a un certo punto del film) la propria fede (basta una sola scena - che diventa chiave in questo senso - in cui si mostra la nonna della giornalista che in lacrime legge sul giornale il risultato del lavoro di inchiesta della nipote). E, se è possibile, fa apparire ancora più potenti e importanti le decisioni prese da Papa Francesco in questi anni, il suo viaggio in America e la sua richiesta di perdono fatta alle vittime («Dio stesso piange». «I reati di abusi sessuali contro minori non possono essere mantenuti in segreto” ha detto a Philadelphia). Certo il film poteva sottolineare le azioni messe in campo dal Vaticano, già dal Pontificato di Benedetto XVI, ma non è per queste “omissioni” che può essere in alcun modo tacciato di malafede.

E il finale è ancora per la stampa, per il mestiere, per la “missione” del giornalista. Ricostruito e restituito al suo senso originario in un film che per tutta la sua durata è impregnato dell’odore della carta e dell’inchiostro, della tipografia e degli archivi che conservano, con le pagine di giornale, la memoria della nostra storia.

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