Snowden: Oliver Stone contro la sorveglianza di massa

Edward Snowden eroe o traditore della patria? Se tornando a casa anche voi avete messo un nastro adesivo sulla webcam del computer per oscurarla una posizione sul “caso” probabilmente l’avete presa. Ma anche senza arrivare a tanto dopo la visione di Snowden di Oliver Stone probabilmente starete cercando di ricollegare i fili di una storia complessa che, pur se attualissima, sembra essersi già un po’ persa negli abissi di una memoria (quella nostra, comune, collettiva, che si forma tra mezzi di informazione e social) occupata da troppi “giga” di informazione.

Ci sono nella vicenda dell’ex analista della Cia diventato “pericolo pubblico” per aver rivelato informazioni fondamentali sulla sicurezza nazionale, alcuni dei temi cardine del cinema di Oliver Stone. Elementi che attraversano le sue pellicole, da Platoon a Nato il 4 luglio a JFK, e arrivano appunto a questo Snowden. Che diventa in qualche modo un film “necessario” nella filmografia del regista.

Un film che parte, con il ritmo della spy story, dalla stanza d’albergo in cui tutto ha avuto inizio: siamo nel 2013, a Hong Kong, ed è qui che Snowden ha convocato i giornalisti del britannico “The Guardian” e la documentarista Laura Poitras per rendere la sua deposizione. Il film di Stone inizia introducendo i personaggi principali e poi va a ritroso in maniera quasi didascalica, documentaristica verrebbe da dire, per cercare di spiegare una vicenda che è complessa, articolata, ostica per come mischia software informatici e sicurezza nazionale. Il regista lascia però sempre come in sottofondo la domanda fondamentale: cosa ha portato Snowden, prima marine mancato e poi agente Cia super addestrato, in quell’albergo? Quale è stata la molla, cosa lo ha trasformato da patriota a “traditore”?

Stone si districa tra biografia e dramma, come già fatto in passato. Ritmo, montaggio, poche sfumature: mettendo mano al repertorio personale riesce ad appassionare lo spettatore e a tenerlo incollato alle sorti del protagonista (aiutato anche da Joseph Gordon-Levitt che è davvero credibile nei panni dell’ex informatico della NSA). Grazie a questa storia ritrova anche quell’ispirazione che in tempi recenti sembrava aver smarrito e quel piglio politico che invece è sempre stato presente nel suo cinema. Quello che però qui gli manca è il passaggio finale, quello che trasforma il racconto dei fatti in cinema capace di superare la “cronaca” degli stessi. La patria, i valori, l’America ferita: avendo come base su cui edificare i libri di Luke Harding e di Anatoly Kucherena si avverte chiara l’urgenza che il regista ha di dipanare la vicenda per renderla il più comprensibile possibile. Ma così facendo Stone finisce anche per semplificarla troppo, soprattutto finisce per perdere la strada del grande racconto, del cinema d’inchiesta, fermandosi uno o due passi prima.

Il suo Snowden rischia di trasformarsi in un “santino”, in un biopic persino troppo spettacolare, e la questione originaria (fino a che punto si può spingere un governo per proteggere i propri “segreti”, qual è il confine tra sicurezza, lavoro di intelligence e controllo fraudolento o - peggio ancora - abuso e violazione dei diritti) passa quasi in secondo piano. Stone la sua tesi ce l’ha e non la nasconde, non sembra nutrire dubbi tra “pirata informatico o eroe”. Il suo film (al di là della psicosi della webcam…) alla fine ha il merito di instillare il dubbio nello spettatore.

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