“Silence”: Scorsese si interroga sulla fede

Sono due le strade (parellele) che percorre Martin Scorsese in Silence: quella della ricostruzione storica dei fatti accaduti nel XVII secolo in Giappone, al tempo della persecuzione dei cristiani; e quella della fede, forte, che passa attraverso la storia dei due gesuiti che partono per l’Oriente in cerca del loro padre spirituale, dato per disperso dopo esser stato accusato di apostasia. C’è uno Scorsese cristiano che può essere riconosciuto lungo tutta la sua filmografia. Lo stesso regista racconta di aver iniziato a pensare al progetto di Silence già alla fine degli anni ’80, dopo aver diretto L’ultima tentazione di Cristo, una volta incontrato il romanzo di Shusaku Endo (che era stato pubblicato nel 1966). Guardando dentro i suoi film si trova un autore che si interroga, che parla di colpa e di perdono, che affronta temi biblici, mescolati a storie che di volta in volta hanno declinato concetti di fede in maniera più o meno dichiarata. In Silence in qualche maniera il raggio della sua azione è più circoscritto che in passato, anche se gli interrogativi sono se possibile ancora più complessi.

I fatti raccontati si svolgono all’epoca dei Kirishitan (i cristiani nascosti), nel 1643 in Giappone. Qui i primi missionari cristiani erano arrivati 100 anni prima, con Francesco Saverio uno dei fondatori dei Gesuiti, ed erano stati accolti bene al punto che si stima che a metà del ’600 fossero quasi 300mila i fedeli nel Paese. Le cose cambiarono quando – e si arriva ai tempi narrati dal film – questi iniziarono ad essere percepiti come una minaccia, quando l’obiettivo dei governatori centrali era di unificare il Giappone eliminando ogni influenza esterna che potesse ai loro occhi rappresentare un pericolo. Il contesto storico, si diceva: Scorsese - raccontando del viaggio dei due giovani missionari gesuiti in cerca di padre Ferreira - ricostruisce nei particolari fatti e ambienti con la minuzia dello storico, senza tralasciare risvolti e approfondimenti di carattere politico.

Tutto mentre resta centrale la domanda principale, legata al titolo, quel “silenzio” di Dio mentre si consuma la persecuzione dei missionari e di migliaia di cristiani torturati e uccisi da un inquisitore che vorrebbe sradicare ogni loro presenza nel Paese. E con essa l’interrogativo sulla scelta di padre Ferreira: apostata per debolezza o proteggere i cristiani dal massacro?

Scorsese mostra i Kirishitan come i primi fedeli nelle catacombe, li racconta attraverso piccoli gesti, minuscoli crocifissi, fotogrammi che si alternano a drammatiche sequenze girate in un ambiente ostile e con immagini di straordinaria potenza visiva. Inserisce nel racconto elementi storici e figure che spostano il discorso oltre i fatti narrati (come il personaggio di Kichijiro, che come Giuda tradisce ma chiede il perdono e sembra sempre conservare un barlume di fede, anche se la debolezza in lui pare avere il sopravvento…).

Pur conservano i caratteri essenziali del suo cinema, vivo, sanguigno, terreno, fatto di fango, oscurità, nebbia e luce abbagliante, un cinema di grande bellezza, ma altrettanto ricco di significato, Scorsese ha scelto in Silence di fermarsi - a un certo punto - in ascolto. Dopo aver molto mostrato e molto descritto con dovizia di particolari (che non risparmiano sofferenze).

Ma il suo cinema - realizzato con i collaboratori straordinari di sempre Rodrigo Prietro alla fotografia, Dante Ferretti per le scenografie, Thelma Schoonmaker per il montaggio e con degli interpreti in stato di grazia a cominciare da Andrew Garfield per arrivare al grande regista Shinya Tsukamoto a nobilitare il cast “giapponese” - appare più contemplativo, più spirituale, rispettoso nei confronti dei fatti narrati e delle domande sollevate. Impegnato com’è a dare una forma a una delle cose più complesse da dire e da comprendere in assoluto: il silenzio di Dio.

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