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“Il nostro generale” e la parabola di Carlo Alberto Dalla Chiesa

Un uomo che è sempre stato in guerra, non ha conosciuto altro nel corso di una vita trascorsa con la divisa da carabiniere cucita addosso: prima la campagna in Albania durante il secondo conflitto mondiale, poi la resistenza, la lunga battaglia combattuta contro crimine e mafia e infine il confronto con il nemico più insidioso, il terrorismo degli anni di piombo.

Nella serie tv “Il nostro Generale” dedicata a Carlo Alberto Dalla Chiesa è lo stesso generale ad ammetterlo parlando con Patrizio Peci, il brigatista che, convinto a collaborare dallo stesso Dalla Chiesa, lo aiutò ad assestare il colpo decisivo.

La serie ha avuto un successo più che meritato in termini di pubblico, soprattutto per la capacità di raccontare la figura del coraggioso e integerrimo militare ma anche dell’uomo con i suoi affetti e i suoi limiti. Non a caso tutta la serie gira intorno ai legami che consentirono a Dalla Chiesa di non sentirsi mai isolato: un vero e proprio scudo, creato dalla famiglia con gli amatissimi figli e dai colleghi, in particolare i giovani componenti del nucleo antiterrorismo dell’Arma tra i quali Nicola, che è anche la voce che accompagna la narrazione sino al tragico epilogo a Palermo.

La serie si concentra sui drammatici anni ’70 e ricostruisce la sfida ingaggiata dal generale in un paese che, dopo i primi colpi sferrati dalle Brigate rosse, si scoprì completamente impreparato: Dalla Chiesa, nonostante le resistenze e lo scetticismo tra i vertici politici e militari, riuscì a sventare la minaccia più pericolosa per la ancora giovane repubblica.

“Non sono samurai invincibili” scrisse Walter Tobagi pagando con la vita il suo coraggio e Dalla Chiesa lo dimostrò con i fatti: tra i pregi della serie c’è quello di mostrare come il generale sin dagli esordi in Piemonte introdusse tecniche investigative fino ad allora sconosciute alla forze dell’ordine italiane (in particolare infiltrazioni, intercettazioni e l’utilizzo dei collaboratori di giustizia) e ancora oggi utilizzate, potendo poi contare sull’appoggio di un paese che progressivamente si schierò al suo fianco.

Non a caso Dalla Chiesa fallisce la sua ultima missione, quella in Sicilia, dove invece si trovò solo e soprattutto abbandonato dai politici, che gli negarono gli strumenti legislativi promessi per convincerlo ad accettare l’incarico di prefetto antimafia. Emblematica la scena del generale che, una volta sceso dall’aereo che l’aveva portato a Palermo, non trovò nessuno ad accoglierlo. Dalla Chiesa prese un taxi per raggiungere un palazzo della prefettura completamente sguarnito. La sentenza di morte mafiosa nei suoi confronti stava per essere eseguita.

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