Saul e la rinascita davanti all’orrore

“Portatori di segreti”. Questo significava essere parte del sonderkommando: prigionieri dei campi di sterminio costretti a lavorare per i loro stessi carnefici, per rimuovere i corpi delle vittime dalle camere a gas e poi avviarli ai forni crematori. Così vicini all’orrore da poter dare uno sguardo dritto nel suo cuore nero, testimoni diretti di un crimine che non si può nemmeno raccontare.

Questo fa László Nemes, regista e sceneggiatore ungherese, ne Il figlio di Saul: prova a descrivere l’indescrivibile attraverso gli occhi di Saul, che sembra non avere emozioni mentre davanti a lui si apre l’abisso. Mentre con uno sguardo immobile esegue gli ordini e trascina cadaveri, raccoglie vestiti e mente ai prigionieri avviati al patibolo, fin quando accade l’inspiegabile: un ragazzino resta vivo dopo l’apertura della camera a gas e nel suo volto l’uomo crede di riconoscere quello di un figlio, e si convince che deve dargli una giusta sepoltura dopo che il medico del campo avrà portato a termine l’esecuzione.

Racconta un cammino di redenzione Il figlio di Saul, il drammatico percorso compiuto da un uomo che arrivato a confrontarsi con l’orrore sceglie una strada per provare a risalire verso la luce. Nemes, al suo film d’esordio - presentato a Cannes un anno fa dove ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria a cui poi sono seguite la candidatura all’Oscar come film straniero e poi una vittoria ai Golden Globe – stringendo l’inquadratura sul volto del protagonista e riducendo a 4/3 il formato stesso della ripresa, sceglie la strada più complicata e porta lo spettatore a contatto diretto con la tragedia. Senza mostrare molto, quasi nulla in verità, delle esecuzioni riesce in realtà a far vedere e sentire tutto della fredda dinamica dello sterminio, arriva con una potenza rara dove è difficile arrivare senza retorica: grazie a uno stile asciutto, all’assenza quasi totale di musiche di accompagnamento, con una direzione impeccabile degli attori e delle scene, raggiunge il cuore dello spettatore senza mettere nulla più di quello che può servire per raccontare questa storia terribile. Non cita luoghi, né date, eppure è preciso e quasi “chirurgico” nel racconto e nelle descrizioni, mentre svela una parte della Storia certo non tra le più note, descrivendo il “corpo” dei sonderkommando, costretti ad esser complici dello sterminio, ma già condannati a loro volta a morte, dopo il periodo di “servizio” (circa quattro mesi…).

Tutto viene raccontato attraverso gli occhi di Saul: il rituale quasi meccanico delle esecuzioni, il “lavoro” infernale portato a termine fianco a fianco agli aguzzini per sopravvivere anche a spese dei compagni di prigionia. La macchina da presa nega allo spettatore ogni inquadratura furba, disumanizza i personaggi per fare lo stessa cosa con il luogo, li mostra come tessere di un ingranaggio, senza però nascondere le loro debolezze, le responsabilità. Poi mette il pubblico stesso in difficoltà di fronte alla scelta di Saul che in qualche maniera “apre gli occhi”, vede il ragazzo morto e decide di cercare un rabbino per evitargli la cremazione e dargli una degna sepoltura. Non è più la vita, questa vita, ad essere importante a questo punto, ma è la riconciliazione che può essere cercata… Attraverso un figlio che probabilmente Saul non ha mai avuto, ma che diventa un simbolo di rinascita, la chiave per ritrovare un sorriso appena accennato, che si apre in un meraviglioso finale.

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