Quelle risate amare sui difetti d’Italia

Una delle critiche più frequenti e meritate al nostro cinema è stata, a lungo, quella d’essere lontano dai problemi del Paese, incapace di raccontarlo. Ora forse per reazione accade il contrario, tanto che i mali dell’Italia vengono declinati persino con i toni della commedia.

Questo fa, o cerca di fare, Massimiliano Bruno da quando è passato dietro la macchina da presa, abbandonando il solco “brizziano” seguito come sceneggiatore. Con Paola Cortellesi protagonista aveva affrontato lavoro, escort e raccomandazioni in Nessuno mi può giudicare, ora tenta il salto triplo, Carta Costituzionale alla mano e foto dei padri nobili alle spalle, per descrivere tutto il marcio della politica in Viva l’Italia. Tentativo ambizioso e impresa titanica che, ovviamente solo in parte riesce, di occhieggiare alla nostra commedia “alta”, partendo dal “basso” e da un tono greve e irriverente, che il regista-autore-attore ha nelle sue corde come dimostrato anche nel personaggio di Boris. Il film.

Qui pescando tra i volti e tra gli stereotipi della mala politica, moraleggiando un po’ ma qualche volta colpendo anche nel segno, racconta della famiglia del potentissimo onorevole Spagnolo arrivata ai vertici del Paese, chi nella politica appunto e chi nell’imprenditoria o nel mondo dello spettacolo, solo ed esclusivamente per non-merito, corruzione e raccomandazione. C’è il capo branco, l’onorevole Michele Placido fedifrago e mentitore, e ci sono i figli: quello stupido (Alessandro Gassman) diventato amministratore delegato, quella cagna (Ambra Angiolini) attrice arrivata nonostante un terribile difetto di pronuncia e quello alternativo (Raul Bova) che fa il medico impegnato in un reparto di un ospedale romano, e che pure lui (a sua insaputa) deve alle onnipresenti leve del padre le sue fortune. Tutto fila italianamente liscio fino a quando al padre non arriverà una crisi, un attacco (vero o presunto) di “demenza” che lo costringerà a dire finalmente la verità, in pubblico e in ogni occasione, mandando in frantumi il castello familiare e quello dei colleghi di partito, che per inciso sono disegnati con la carta carbone sullo stile della formazione politica fino a pochi mesi fa alla guida del governo (quello vero) del nostro Paese.

Un po’ marchese del Grillo, un po’ teatrale finto-folle che in realtà ci vede e capisce benissimo, l’onorevole Spagnolo diventerà la voce della coscienza di un’Italia ormai al limite della sopportazione, incapace di ingurgitare altra corruzione e brutta politica, altra cultura di serie Z e raccomandazioni. Bruno mette alla berlina la brutta televisione e il malaffare e in ridicolo i vizi e le disonestà a cui, come narcotizzati, sembriamo esserci tutti quanti abituati. Il suo modello, come detto, dovrebbe essere la commedia nobile e irriverente dei “padri”, ma anche quella scorretta dei comici americani alla Andy Kaufman. Poco conciliante e capace di smascherare i difetti risultando “scorretta” rispetto alla visione “comune”. Peccato che il tentativo resti, in Viva l’Italia, sono nelle intenzioni, rivelandosi il film più conforme di quello che vorrebbe, inanellando pure lui troppi stereotipi e luoghi comuni. L’impresa era titanica, si è detto, ma Bruno ci infila dentro troppo, tutto, dalle macchiette (riuscitissime) del mondo dello spettacolo al terremoto dell’Aquila e agli scontri di piazza che evocano il G8. Con un uso didascalico della musica che appesantisce oltremodo. I difetti dei suoi personaggi sono sottolineati all’inverosimile e alla fine scontati, e rischiano di far apparire furbo il tentativo del regista. Che invece si rianima e si riabilita quando ritrova la vena da “one man show” e la cattiveria “borisiana” per condannare la brutta televisione e i mostri di un modello culturale, questo sì, messo mirabilmente alla berlina.

Lucio D’Auria

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Viva l’Italia

regia M. Bruno, con M. Placido, A. Gassman, A. Angiolini, R. Bova

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