Quelle anime lombarde nell’“Oceano Padano”

Il ritratto, accurato e calzante, di un luogo e l’autoritratto coraggioso e senza ipocrisie di chi si sente figlio di quel luogo e, in qualche modo, se ne fa emblema. Oceano Padano di Mirko Volpi è un libro che non può mancare sulla scrivania di chi è nato e vive fra il Po e l’Adda (ma vanno bene anche Lambro, Ticino, Redefossi e le tante rogge che solcano quel grande mare d’acqua, letame e burro che è la Bassa). Leggerlo è un po’ come guardarsi allo specchio, anzi, è una vera e propria seduta di autoanalisi senza il costo - e l’impiccio - dell’analista. La Nosadello di Volpi, piccolo borgo fra Lodi e Crema che non può più nemmeno fregiarsi dello stemma di Comune essendo ormai soltanto “frazione” (di Pandino per l’esattezza, diocesi di Bassiano ma provincia di Cremona), riunisce infatti in sé le caratteristiche della tipica “isola” padana - campi di mais e melga, marcite, cascine, bar, osteria, chiesa e oratorio - mentre i suoi abitanti sono la sintesi perfetta degli uomini e delle donne della Lombardia rurale. Solitari, silenziosi, essenziali e schietti i primi; pudiche, ciarliere ma senza esagerare, doveriste e laboriose fino alla maniacalità le seconde. In questi luoghi il tempo sembra essersi fermato e la modernità, che pure inevitabilmente si insinua fra secche e riflussi, non è riuscita a scardinare usi, costumi e tradizioni. Qui, in quello che è «un presidio culturale contro il presente», succede poco o nulla, ieri come oggi. E farsi cantori di tanto nulla, oltretutto dopo i Brera e i Maietti, è un atto di coraggio. Ma al 37enne autore, linguista di vaglia all’Università di Pavia dove si occupa di letteratura delle origini, il coraggio non fa difetto. E così si tuffa per 170 pagine nel suo e nostro Oceano Padano, senza indossare maschera o pinne (ché velocità e comodità i bassaioli le lasciano ai milanesi...) nuotando con consumata lentezza tra afa, gelo, noia e desolazione ed estraendo perle degne di ben altri fondali. Perle di scrittura, anzitutto, perché Volpi la penna la sa maneggiare eccome, con qualche eccesso espressionistico forse e un periodare che denota l’abitudine a confrontarsi con il latino e l’italiano trecentesco, ma sempre tenendo alto il livello e riuscendo in più punti anche a far sgorgare la poesia. Dimostrando buone letture anche ben oltre i confini del basso medioevo, con citazioni più o meno esplicite (D’Annunzio e Gozzano), sempre ben amalgamate nel testo, e non lesinando l’ironia, dosata come un antidoto contro i possibili eccessi lirici che male si attaglierebbero al parlare “padano“. Un brano a guisa di esempio: «Gli abitanti dell’Oceano Padano, anche in mezzo alle nebbie decembrine, vivono sempre con la testa nell’afa, come se fosse giugno, con la mietitrebbia in funzione e i trattori nei campi di notte col faro sul tetto, la sveglia all’alba, per merenda una luganega sgagnata alle undici, la fatica un concetto immagazzinato nei granai per l’inverno. Ma non si sono più le nebbie di una volta. Così dicono tutti, vecchi, meno vecchi, persino i giovani che si appropriano senza saperlo della memoria ingannata degli anziani, quando sulle isole remote cala il vaporoso sipario della nostra più riuscita rappresentazione: quella che non mette in scena niente, che ci cela agli occhi del mondo progredito e insipido. Gli uomini e le donne dell’Oceano Padano non mostrano, si ritraggono, spariscono assieme alle stradine di campagna larghe un metro e costeggiate da fossi dalle alte rive, il cui tracciato offuscato dalla coltre nebbiosa è solo un’intuizione innata e fiduciosa, una sciarada, una roulette russa giocata con fucili da caccia caricati a pallini».

© RIPRODUZIONE RISERVATA