
Piero Bassini, inimitabile ribelle del Jazz VIDEO
MUSICA Il famoso pianista e compositore di Codogno, noto a livello internazionale, il 10 agosto sarà in piazza della Vittoria a Lodi alle 21.30
Lodi
L’appuntamento è da Cornali, nella sua Codogno, che l’intervista a casa no, non vuole farla. “Mica che questa si metta alle spalle a sbirciare, che poi mi imbarazzo”, pensa. Figuriamoci, proprio lui che ha suonato con i più grandi jazzisti di livello internazionale davanti a migliaia di appassionati e il 10 agosto, alle 21.30, sarà in piazza della Vittoria, all’interno di Lodi al Sole.
Se non lo interrompiamo quando lo incrociamo fuori in via Roma, che è anche giorno di mercato ed è tutto un via vai con i cani e le borse della spesa, lui continua a parlare e l’intervista la fa lì, in piedi, sotto il dehor.
Piero Bassini, 72 anni, noto compositore e pianista jazz, racconta subito del suo chiodo fisso, la mano destra che per un po’ l’ha fatto impazzire dal dolore, a causa dell’eccessivo utilizzo virtuoso e senza riposo sulla tastiera e ha speso una fortuna per farla guarire fino a decidere che la ricetta migliore era il riposo, o almeno ci ha provato. Ruvido, ribelle a qualsiasi tipo di regola che sia pura convenzione e insipida forma. Lo convinciamo a entrare anche se il fracasso e le chiacchiere del centro di Codogno a metà mattina cercano di infilarsi nel buon umore che mette trovarsi con un personaggio come Bassini.
. Video Bassini in concerto, il 10 agosto sarà a Lodi
Come sta?
«Ho due dita malate, il mignolo e l’anulare, stanno migliorando, ma ho fatto dieci anni così. Si piegano in avanti quando le muovo sui tasti. Suonavo il piano per 7 ore al giorno e poi la tastiera pesata per 3 o 4. Ero ad un concerto a Iseo e all’improvviso le dita si sono piegate in avanti. “È un forte trauma”, mi hanno detto. Ho speso un sacco per le cure. La risonanza non dà lesioni. Sono andato all’istituto di chirurgia di Monza, in treno, con la neve che arrivava al ginocchio, da un luminare».
«Avremo anche la Costituzione più bella del mondo, ma c’è una condizione reale che fa schifo. Il medico ha guardato gli esami e mi ha toccato. “Ci sono gli incidenti stradali e i disastri ferroviari. Questo è un disastro ferroviario - ha detto -. Domenica facciamo l’intervento. Costa 7mila euro, ma paga lo Stato. Se va bene, ok, se sbagliamo, un intervento successivo non c’è più. Ho lasciato perdere».
Lei ha suonato con i più grandi del jazz. Oggi com’è la situazione della musica?
«Il jazz ha un’estetica e dei canali ben precisi. Piano piano, con tutti questi inserimenti, si sta svuotando dei suoi contenuti armonici e melodici».
Qual è il suo cantautore preferito?
«Nessuno, anzi Bob Dylan; personalmente mi piace Antonello Venditti, ha fatto delle canzoni belle, ci “becca” con le melodie».
«Mozart, Bach, Beethoven erano musicisti».
Lei è insegnante?
«La mia delusione è che nelle sale da concerto si vedono pochissimi giovani. Servono scuole alternative a quelle che fanno fare do, mi, sol, re, sol, si, come se giocassi a dama. Pagano cento euro al mese e imparano gli accordi così. I ragazzi quando vengono a lezione adesso vogliono fare le canzoni che vogliono loro. “Prendi il mio primo Bach”, dici. “Cosa?”. “Prendi il Pozzoli”. Dopo la prima lezione non li vedi più. Non puoi più studiare, si stanno svuotando i conservatori. Qua sul telefonino hanno tutto in tempo reale. Imparare a suonare il pianoforte ci vogliono anni. Quando scoprono che è così vanno via. Non apprezzano una sonata di Mozart. “Se in questo video riescono a suonare Ligabue con 4 accordi riesco a farlo anche io. Allora perché devo studiare le scale?”, dicono. “Devi sgobbare come un matto”, dico. Niente».
. Video Bassini al concerto di Manerba
A proposito di contemporaneità, ha guardato San Remo?
«Mi è piaciuta Giorgia, ha una bella voce Giorgia. Poi non è che mi interessi. Metto un disco di Kait Jarrett, Oscar Peterson, Mozart e poi Bob Dylan “Like a rolling stone”. Avevo 15 anni, mia mamma veniva di sopra: “Allora? Te s’è amò lì? Quante volte te l’è scultad”. Io ero molto timido. Lei mi accarezzava: “Sta chi sta chi”. Io rimanevo in silenzio».
Quando ha iniziato a suonare?
«Da ragazzino, con gli amici, suonavo la chitarra, poi sfortunatamente ho messo la mano su un organetto: “Guarda che bello”. Do, mi, sol, mi, fa, la. Sono stato tre anni dal maestro Travaini, era cieco, suonava benissimo. Facevo teoria e solfeggio. Non c’era sta roba qui (prende in mano il nostro smartphone, lui ha un vecchio telefonino). Il fatto di andare da un insegnante, star zitto e far tutto quello che dice è il solo modo di imparare».
Quando ha iniziato a mettere la mano sulla tastiera?
«A 13 anni, ne sono passati 60».
La passione per il jazz quando vi è venuta?
«Nel 68, ho sentito Brian Auger, l’organista inglese, non l’avete mai sentito? Adesso ha 80 anni. Sentivo tutti questi fraseggi in “Back in Judy’s jungle”. “Voglio farlo anche io”, ho pensato. Mi sono messo a suonare. C’era la batteria rock, lui armonizzava in modo sofisticato. Avvertivo che non erano i soliti re maggiori, era un’armonia diversa, dall’altra parte, con le scale, fraseggiava. “Ma da dove arriva questa roba qua?”, mi sono chiesto. E scava oggi, scava domani, chiedi di qui, chiedi di là, arrivava dal jazz, era un ramo del jazz. Pensavo fosse molto più semplice, faceva delle scale velocissime. Ero completamente analfabeta, se mi vedessi oggi mi metterei a ridere; mio fratello mi diceva: “Ma non andare così veloce, non si suona in quella maniera lì, non serve a niente”. Mi metteva in crisi. Poi quando ho sentito Brian Auger ho detto: “Ma allora lui è un cretino?”. Mio fratello lo diceva in buona fede. Allora c’erano i Dik Dik: prova a sentire come suonavano Lennon e Keith Emerson il pianoforte, due giganti».
«Di pelle sono sempre stato attirato dal virtuosismo, Sentivo un chitarrista? “Ma come fa”?, mi chiedevo».
Come è arrivato al jazz?
«Sono arrivato al jazz partendo dal rock, Jethro Tull, Jon Lord, il pianista dei Deep Purple: ce li sogniamo la notte. Oggi chi fa una roba del genere? Nessuno. Oggi è rimasto il rumore»
Qual è il suo concerto migliore?
«”Un tema, 6 variazioni” con Luca Garlaschelli ed Ettore Fioravanti. È il lavoro migliore che ho fatto».
«“È un capolavoro, pensavo fosse keith Jarrett”, aveva detto Paolo Arzano sull’Eco di Bergamo. “Questo qua prende il premio”. Ho fatto 70 concerti. Suonavo 8 ore al giorno, scrivevo, scrivevo, scartavo. Dopo 52 volte trovi la composizione giusta. Tutto all’inizio è improvvisazione, poi trovi quello che t’interessa. Quando l’allievo chiedeva a Rossini come si fa a diventare un grande compositore, lui diceva: “10 per cento è ispirazione, 90 per cento traspirazione: devi sudare”. Io ci ho creduto. È quello che abbiamo perso in questa generazione. C’è gente intelligentissima, dotata: “Vai avanti - dici - non smettere”. Invece sai quanta gente si perde?».
Il concerto che le è rimasto di più nel cuore?
«Villa Imperiale a Genova, con il trio».
«Quello più emozionante e mi sono fatto letteralmente la pipì addosso, è stato ad Umbria Jazz 1976. C’erano Cicci Foresti, Alberto Alberti. “Tu Bassini sei un rompic...”, “Sei un comunista di m..., tu e quel ca... di Veschi”. Veschi era un omone, una persona brava così non so dove trovarla ancora. “Devi studiare, forza vai a casa, ci vuole l’enciclopedia del jazz”, mi hanno detto. Il problema è che costava 500mila lire. Sono andato a casa, c’era una borsa, dentro c’era l’enciclopedia. Me l’aveva comprata Veschi, per studiare, bravissimo. “Ma io non sono all’altezza”, dicevo. “Come, non sei all’altezza? Studia”. Io sapevo che c’era della gente straordinaria al concerto: Chris Rea, Oscar Peterson, Keith Jarret, Brian Auger. “Qua esco massacrato”, ho pensato. Poi Cicci Foresti dice: “Allora Bassini tocca a te, è ora di cominciare”. “Come tocca a me?”. Qui ci sono Enrico Rava, Charles Mingus, Kris Kristofferson, mi mandate in mezzo ai leoni?”. “Allora senti - mi dice -. Hai voluto la bicicletta? Tocca a te”. Sono arrivato sul palco, c’era un Yamaha di 20 metri. Facevo così (trema con le mani, ndr). C’erano 30mila persone. “Non guardare di lì”, mi dicevo. Ho iniziato con le mie quartine ascendenti, discendenti, ogni tanto qualche accordo, ma non ho suonato un tema preciso; l’emozione era tale che non sentivo il sedere sulla sedia, mi sembrava di essere sospeso. Poi mi sono alzato sconsolato, me la sono fatta addosso. Avevo tra i 24 e i 25 anni. C’era il retropalco, giro le spalle, sento: “Fuori, fuori!”. “Se esco mi tiran le cadreghe adoss”, mi dico. Alberto Alberti mi dice: “Adesso esci”. E io: “No”. “Ma cosa fai? Sei a Umbria jazz, hai suonato 40 minuti e questi vogliono il bis, non giocartelo”. Sono uscito rafforzato da questa cosa. Bisogna provare a essere sul palco con 30mila persone davanti. Allora ho fatto un pedale, una cosa alla keith Jarrett, più rilassata, ho fatto un quarto d’ora perché poi c’erano dei grandi nomi che dovevano suonare, mi hanno applaudito e sono uscito. Poi mentre ero lì Foresti mi dice: “Vieni che ti faccio conoscere qualcuno che ti interessa”. Dico: “Lascia perdere”. S’eri tut sudad, un’emozione avevo addosso. “Ho sete, ho sete”, ho detto. C’era un frigorifero, mi sono bevuto due coca cole. “Questo è Charles Mingus”. Il bassista era lì, davanti a me. Gli ho stretto la mano e mi ha toccato dietro la testa. Questa situazione verrà con me nella tomba. Ha detto in americano: “Lui è ancora un po’ immaturo, però ha una facilità e una passione infinite”. Poi c’è stato Umbria Jazz 78. C’era John Coltrane, volevano farmi suonare prima. “Voi volete uccidermi”, ho detto. Aprendo i concerti 20 minuti prima facevi il bagno di folla e ti conoscevano: sono finite queste cose qui. Ci sono giovani bravissimi che non hanno più queste opportunità. Anche se sei un talento non interessa a nessuno promuoverti. Adesso a Umbria jazz chiamano Elton John e Santana, non ci sono più gli italiani. Siccome ci sono le grandi case che pagano il festival, vogliono vedere 20 mila persone presenti, se chiami gli sconosciuti non vengono così tante persone. Sull’altare dell’economico si è sacrificato tutto».
Cosa ci vorrebbe oggi per cambiare la cultura?
«Che la musica non fosse una moda, ma qualcosa di serio e radicato».
«In Germania la famiglia media ha la mamma che suona il pianoforte, il padre il violino, il figlio il violoncello e suonano Bach. Io dico sempre di portare gli studenti ai concerti. In Germania fanno così, portano i ragazzini nei teatri per fargli vivere queste emozioni: sono momenti insostituibili».
È in pensione?
«Dal 2019. Se mi metti nel posto più bello del mondo, ma non posso suonare, sto male. Io da giovane, a Milano, saltavo i pranzi, suonavo in via Torino, in taverna, dal martedì al sabato dalle 9 di sera alle 3 del mattino, mi davano 30 mila lire. Era il ’74/75, mi pagavo la civica, poi la domenica andavo al Capolinea con Giovanni Tommaso e altri, ero lì con gli occhi spalancati; il fatto che avessi mangiato o no non mi importava; a mezzogiorno dovevo decidere se comprarmi le Ms o mangiare il panino. Poi ho dovuto smettere perché fumavo due pacchetti al giorno. Al Capolinea vendevano anche i dischi e c’era un padiglione con i pianoforti. La titolare mi faceva suonare: “Così attiri la gente”, mi diceva. Al pomeriggio, alle tre e mezza, andavo lì, suonavo e studiavo. Poi suonai all’università statale, con le nuove tendenze del jazz italiano, c’erano Giorgio Gaslini, Gaetano Liguori. C’era Attilio Zanchi, un bassista molto bravo: abbiamo fatto un disco; non ho mai visto una città se non per il jazz. Dovevamo andare in Sicilia. “In macchina?”, ho chiesto. “No no, c’è da prendere l’aereo”. “Mi la ciapi no, g’ho una pagura”. Attilio mi ha detto: “Domani mattina alle 7 passo a prenderti. Qui c’è lavoro, muto e si va”. Poi c’è stato l’incontro con Bobby Watson nel’86, e poi 10 anni fa mi è capitato questo disastro delle dita così ho dovuto rinunciare a tutto quello che arrivava, dalle serate alla scuola».
Ancora adesso?
«No no, adesso no. A luglio sono andato al festival internazionale jazz di Manerba, il 10 agosto sarò in piazza a Lodi e poi andrò al festival di Fano in ottobre. I festival ti rimettono in vetrina».
Suonava anche in altri locali?
«Ho suonato al festival jazz di Bologna, a Roma, andavamo su Rai radio tre che faceva jazz in Italia, con Adriano Mazzoletti, una trasmissione che si chiamava “Invenzione a due voci”. Facevano sentire Chopin per esempio, tu dovevi traslarlo in chiave jazzistica. Poi ho suonato al jazz club di Genova con Bobby Watson, a Torino, al Paradiso perduto di Venezia. Per un anno tutti i fine settimana andavamo a Venezia a suonare in questo posto. A livello internazionale abbiamo suonato ovunque, con il trio o da solo. Ho suonato a Martina Franca, grazie a Franco Fayenz, grande critico, C’erano Marcel Louis Joseph, Bobo Stenson pianista svedese e poi c’ero anche io, era l’European jazz conference. Ne ho fatti tanti».
Ogni volta si portava qualcosa a casa
«Dagli organizzatori del concerto a palazzo Butera, a Palermo, devo prendere ancora i soldi oggi. Era l’86, 87, è l’unica volta che non hanno pagato. Vorrei che leggessero. Se fai i concerti con Frank Sinatra, mi dici come mai sei in difficoltà a pagare il trio? Noi eravamo italiani...».
Il concerto più brutto?
«La sera che raggiungi uno standard incredibile e non applaude nessuno o viceversa; quello che senti tu non è quello che sentono gli altri.È una cosa molto emotiva. Bobby Watson mi diceva: “Sacrifica tutto, ma non il ritmo, è come una persona senza spina dorsale, non può camminare”. Nel jazz è una cosa fondamentale. Suoni anche sul Montegrappa con 20 gradi sottozero perché ci credi».
C’è una relazione tra musica e politica?
«Il jazz nasce dalla contestazione, dai campi di cotone, dalle canzoni del lavoro. Il blues è un lamento, i testi erano scritti in modo tale che richiamavano il padrone, o gli sfruttamenti, sfogavano il loro disagio. È un linguaggio che nasce dalla condizione umana estrema, dalla sofferenza, poi si è evoluta. C’è stato Charlie Parker. Lui cambia il linguaggio, sulla struttura armonica del tema sviluppa tutta una serie di fraseggi. Da Parker in poi il jazz è il rituale della musica classica. Cambia la morfologia, non si balla più, ci si siede, si ascolta il concerto; ha fatto fare al jazz il salto, è entrato in sala con il cavallo, un pazzo. L’hanno ricoverato, ha preso il letto e l’ha buttato giù dalla finestra. Aveva una intelligenza superiore alla media, poi è finito malamente a 35 anni, drogato. Parker sta al jazz come Mozart sta a noi. È il mozart dei neri, per tutti è stato un genio. Se un giovane incomincia a entrare in questo clima, un po’ di curiosità gli viene».
I suoi genitori cosa dicevano?
«Ho fatto la civica 8 anni a Milano: chiudevano la scuola, io ero dentro a suonare, si va a casa eh, Io ero lì, do, re, mi, sol. Lo studio è legato all’interesse, siccome ero interessato studiavo, è questo che la scuola deve fare; dovevo lavorare per portare a casa quattro soldi. Il mio vecchio era bravissimo, ma mia madre mi faceva mangiare prima o dopo perché lui non voleva vedermi a tavola. “Quel lì, el fa nient, el va in gir, el suna, ma qua lavoriamo tutti”, diceva. Un giorno mi ha dato una sberla: “Questi capelli... - un po’ sorrideva -. At mangi a sbafo, taglia i cavei”. Mia mamma cercava di fargli capire com’ero. Mi sono iscritto in un gruppo poi ho fatto il militare. Mio papà diceva: “Quello che fa la differenza è il militare, quando torna poi...”. Sono tornato ed ero più convinto di prima. Sono andato ad Umbra Jazz, c’era Rai 2 e hanno fatto vedere anche me. Mio papà si è messo la giacca, in stazione, a Codogno, c’era un vecchio bar, è andato là a dire: “È mio figlio...”. Mi ha fatto piacere perché almeno gli ho dimostrato che ci credevo davvero. Nell’enciclopedia del jazz di Parigi, a pagina 24, parlano di Enrico Molli, Duke Ellington, Molly Johnson, Miles Davis, Coltrane, Gato Barbieri che ha scritto la colonna sonora del film “Ultimo tango a Parigi” e poi Piero Bassini. La Mondadori me l’ha mandata a casa; ho detto al postino: “Non la compro. Non mi interessa ne ho già 3”. “Ti dico che è tua non c’e il foglio per pagare”. Va beh, ho pensato, me l’avranno regalata. L’ho messa là, poi dopo 20 giorni così per caso l’ho presa in mano e con presunzione ho voluto vedere la B, oh cavolo, c’era il mio nome. Non per alterigia, ma mi sarebbe piaciuto farlo vedere a mio padre che diceva che ero un lazzarone. “Voglio fare questo mestiere qui”, dicevo. Mia madre ha fatto la differenza: “Ma lascialo stare - gli diceva -, vuol fare questo, se ha i pantaloni rotti non mi chiede niente”. Poi sono anche sull’altra enciclopedia, quella della De Agostini: lì c’è anche la fotografia, ma non ce l’ho. Stessa cosa con i cd, ne ho fatti 20, ma ne ho 2. Non so come mai: è mio fratello che me li prendeva e li portava via».
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