Nuovo thriller ottocentesco per Gabriele Prinelli

Sabato 15 novembre, nel contesto della nutrita rassegna Bookcity Melegnano, Gabriele Prinelli parlerà del capitolo due della “saga di Gaspare l’organaro”: Il mistero di Marignano , il secondo capitolo dell’ormai solido scrittore melegnanese (per la precisione di Riozzo) sta per uscire pubblicato da Gemini Grafica. In realtà nell’incontro di sabato, dalle 15 presso il cinema auditorium di piazzale delle Associazioni, zona biblioteca, Prinelli non parlerà solo del nuovo volume ma farà una carrellata su un periodo letterario che sente particolarmente affine. L’Ottocento lombardo, quel filone di post-romantici, di veristi, di manzonianeggianti che si sono aggirati fra Milano capitale industriale e la Lombardia ancora agricola. Rovani, De Marchi, Fogazzaro, Rovetta, il Verga “milanese”, Cantoni, persino il don Inganni sangiulianese. Prinelli li ama, ama il loro modo di scrivere e confessa anche di volerlo imitare nella prosa. Quindi non resta che attendere questo suo sesto libro in “linea lombarda”, versante giallo. Una storia ambientata nel 1818 in cui di mezzo - come nell’antecedente La mano dell’organista - c’è un omicidio misterioso alla rocca Brivio di San Giuliano. E (forse) pure un fantasma. Tornano Gaspare, lo “Sherlock Holmes” ruspante, sua moglie Cecilia, i nobili Sforza Brivio della rocca, persino la spassosa macchietta di “Tano le Turc”. Perché ambienta sempre le sue storie nel passato? È una presa di posizione antimodernista?«Il punto fondamentale è che calare un giallo nel passato lascia più spazio alla fantasia. Duecento anni fa non c’erano i Ris né i tabulati dei cellulari. Era possibile che un artigiano un po’ istruito, una specie di illuminista fai da te come Gaspare avesse più acume di un commissario di polizia, di un bargello. Ma oggi, che spazio di incertezza vuoi lasciare? Quando mi intervistano o intervengo a presentazioni, dico sempre che un giallista oggi deve avere più fantasia nell’ingegnarsi a spiegare come mai le indagini falliscono, piuttosto di come riescono. Poi forse sì, posso ammettere che più che antimodernismo, parlo delle cose che sento mie: e una cosa che non sento particolarmente mia è la metropoli». Il romanzo storico, o almeno la novella storica, ha però altre sabbie mobili: bisogna essere attendibili, dire cose congruenti col mondo che si narra... «Personalmente ho constatato che quando si costruisce una storia nel passato il grosso problema è “creare il sapore” di quel mondo, la vivezza dell’interazione fra persone. Nel primo capitolo della “saga dell’organista” c’è un personaggio, l’oste “Tano le Turc”, che è praticamente l’unico meridionale a Melegnano nel 1817, e viene appellato con un nomignolo mezzo francese perché era appena passato Napoleone. Ecco: penso che un “Tano le Turc” nessun codice o archivio o regesto te lo abbia tramandato, bisogna tratteggiarlo essendo, spero, attendibili nella fantasia». A proposito di giallo, qualcuno potrebbe osservare che Lei è un «moderato» del genere. C’è l’omicidio, ma rimane nascosto, alluso più che visto. C’è l’investigatore ma non si tratta del classico tenebroso-maledetto, bensì un artigiano di sani principi che sposa la “bella pigotta”... «Io nei miei libri non voglio angosciare, voglio divertire. Io autodefinisco i miei libri “gialli” nel senso primario del termine, di giallo hanno anche la copertina... So che “pigiando l’acceleratore” su sangue, sesso e affini otterrei probabilmente di più, ma non mi appartiene. Io scrivo di gente che soffre e stenta perchè più si va indietro più si incontra povertà, ma che sa anche godersi la vita e sa ridere e fa ridere. Scomodando un paragone che non è un paragone perché tiriamo in ballo un nome colossale, Alessandro Manzoni è tragico ma insieme fa sorridere. Renzo soffre le pene dell’inferno, ma ti fa anche ridere quando si ubriaca all’osteria: ecco, la mia letteratura guarda a quello». Cosa c’è nel futuro della saga dell’organista investigatore?«Le puntate tre, quattro e cinque. Le idee sono già nutrite».

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