Nell’albergo del tempo di Sorrentino

Un lampo di quel genio perduto. Una luce, non dentro gli occhi, ma in un piede sinistro. In un palleggio senza fine, sghembo, di esterno, beffardo, difficilissimo, che si prende gioco degli anni e del fiatone, dei chili di grasso e dei dolori. Non è solo l’omaggio al mito dei (suoi) anni giovani, in quella scena c’è quasi tutto il senso di Sorrentino per “la giovinezza”. Questo pupazzone grasso e affaticato, questo Maradona messo al centro dell’inquadratura per pochi istanti (in realtà senza mai nominarlo - ma non ce ne sarebbe bisogno - facendolo interpretare a un sosia somigliantissimo) basterebbe da solo a raccontare Youth. La giovinezza, il nuovo film che il regista napoletano ha diretto dopo l’Oscar a La grande bellezza.

In un albergo di lusso sulle Alpi svizzere si incrociano le vite di un pugno di personaggi, clienti per lo più ricchi e anziani che trascorrono l’estate tra cure termali e isolamento. In questo non-luogo si incontrano il direttore d’orchestra ottantenne che non vuol più dirigere e il coetaneo regista che sta invece preparando un nuovo film con una squadra di giovani sceneggiatori. Poi c’è la figlia del compositore che è appena stata lasciata dal marito e un attore che cerca l’ispirazione per “entrare” nel suo prossimo ruolo. E c’è lui, un Maradona irriconoscibile con Marx tatuato sulla schiena, il bastone per camminare e la bombola di ossigeno. Così è passato il tempo, inesorabile, cattivo, senza pietà. Capace di cancellare tutto, o quasi. Tranne quel lampo…

Youth (girato in inglese e interpretato da un pugno di attori in stato di grazia, a partire dalla coppia Michael Caine-Harvey Keitel) è un film sulla memoria e sulle cose perdute: le occasioni, la bellezza, la fama, i ricordi, il bisogno di leggerezza. Parla della vecchiaia, soprattutto, ma si intitola “La giovinezza”, perché alla fine il regista riesce a trovare una chiave per comprendere questo tempo che sfugge. E, come per Nanni Moretti, riesce a dare un senso alla parola “futuro”.

Sorrentino esorcizza la paura della morte e il dolore dei rimpianti ma rischia di apparire autoreferenziale, ingabbiato in uno stile elegantissimo e in una narrazione che costantemente alterna il tono amaro con una vena ironica che cerca sempre di sparigliare per evitare la commozione. Gli va dato atto che questo gli impedisce di cadere nella retorica più spiccia e di mantenere sempre il controllo su un tema complicatissimo. Quello che sembra mancare invece, tra un passaggio e l’altro della sceneggiatura, è quel lampo, quel palleggio di sinistro che si intravede ma che poi non arriva, annunciato e sempre rimandato.

Resta un film importante Youth, che arriva nel momento più complesso della carriera del regista napoletano, che in qualche modo (lo si è visto) ha messo anche se stesso in quell’albergo alle pendici delle Alpi, in un silenzio innaturale rotto solo dalla “solita”, coltissima e bellissima colonna sonora (un altro marchio di fabbrica) nobilitata dalla voce di Mark Kozelek. L’opera più difficile che arriva dopo un Oscar per il film straniero e che racconta, tra le altre cose, di un regista che (come in 8 e mezzo) cerca l’ispirazione nell’isolamento di un albergo, circondato da fantasmi, ricordi e ossessioni. Tra la memoria che si perde e un vecchio campione che all’improvviso riesce ancora a cancellare il tempo e la paura, con un colpo che fa tornare bambini.

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