Musica, ecco la Lodi di Roberto Santoro

Ha preso casa a Lodi Roberto Santoro, il cantautore che da mercoledì scorso e fino a domenica accompagna sul palco del teatro Verdi di Milano il critico musicale Mario Luzzatto Fegiz in Io odio i talent show, ottanta minuti di monologo sui fatti e misfatti degli ultimi quarant’anni di musica italiana. Santoro, calabrese per radici e milanese, ora lodigiano, di adozione, chitarrista, una grande cultura musicale e una “gavetta” fatta di band underground e poi di cover, fino all’incontro nel 2006 con il compianto produttore Angelo Carrara, ha dato alla luce a metà aprile il suo terzo album, Suite deserto, su etichetta Target e con distribuzione Warner. «Un album - spiega soddisfatto il cantantore - che alla Fnac di Milano, ad esempio, è andato subito esaurito. Carrara me lo diceva che qualsiasi cantautore che ha avuto successo ha fatto il boom al terzo disco. Speriamo». Il produttore milanese tragicamente scomparso pochi giorni fa aveva scoperto Battiato, Alice, Bertoli, Ligabue, e aveva poi seguito e indirizzato poi altri nomi noti del panorama della canzone italiana. Nel suo terzo disco, con un titolo che è un ossimoro, Santoro parla di sentimenti, facendo trasparire una ricerca esistenziale arrivata all’equilibrio del quarantenne, ma rimane fedele al rock. Un rock d’autore, ricco di riferimenti ma altrettanto pieno di sfumature.

Come ti trovi a Lodi? «Ci vivo da un anno, mi piace passeggiare di notte in centro, è una cosa che mi rilassa. C’è una piazza bellissima, dove tra l’altro, sorseggiando un amaro al tavolino di un bar, ho anche scritto la canzone La signora delle distanze, in cui affronto il tema dell’incanto e del disincanto. E proprio in questa piazza, che sembra un’arena ideale per i concerti, mi piacerebbe poter suonare, magari, perché no, già quest’estate. Certo, Lodi non è città di gran divertimenti serali, ma questo è l’inevitabile rovescio della medaglia. E per me, che gravito su Milano per la musica, vivere qui è molto comodo».

Come si riesce a fare il cantautore nell’era digitale? «È molto facile realizzare la musica, molto difficile ottenere una produzione. Internet dà spazio a tutti, ma crea confusione. Ricordo quando, da ragazzo, andavo a comperare un disco, lo ascoltavo con attenzione, guardavo i titoli, i disegni della copertina. Oggi la musica è ovunque, si scarica gratis, centinaia di canzoni in pochi minuti, che magari poi non si ascoltano nemmeno. C’è saturazione: i giovani di oggi avranno, un domani, dei “classici” da riascoltare? Spesso quella che chiamiamo musica è intrattenimento, pensiamo alle cover band: a mio avviso è un fenomeno triste».

Qual’è la tua sfida? «Chi vuole essere artista, fare musica con la M maiuscola, deve cercare la propria via, mettere a frutto la propria cultura musicale facendo anche ricerca. Il disco non è più l’obiettivo: una volta si vendevano un milione di copie, oggi solo pochi nomi arrivano a centinaia di migliaia. Per i “comuni mortali” un disco di successo raggiunge quota 20mila copie. Ma serve per sostenere i concerti. Internet e Mp3 a parte, il mercato musicale è oggettivamente dominato dal “music control”: le radio sono portate a programmare certe canzoni perché ritengono che facciano audience in conseguenza del fatto che sono canzoni molto programmate, e siccome trasmettono canzoni che fanno audience vendono meglio la pubblicità. Stiamo parlando di 40 autori: una rosa ristretta nella quale è difficile entrare ma è anche altrettanto difficile uscirne. Per il resto ci sono album anche molto belli che restano sconosciuti. Per me la musica è nei concerti, nelle piazze, con la gente. E spero di poter portare a Lodi anche lo spettacolo di Luzzatto Fegiz. Secondo il quale, e sono d’accordo con lui, è drammatico che oggi possano arriva alla ribalta cantanti che non sanno chi è Bob Dylan, e che magari hanno fatto esperienza solo con il karaoke».

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