Miserere, il film-verità di Puccioni

Ricostruita con rispetto la complessa figura della donna che non superò mai il dolore per la morte di Umberto Mormile

come il vento

regia di Marco Simon Puccioni

Con Valeria Golino e Filippo Timi

«Una donna e due tragedie»: sta tutta dentro un nome e un cognome la storia di Armida Miserere raccontata da Marco Simon Puccioni in Come il vento, film ispirato alla vicenda (vera) della donna che è stata tra le altre cose direttrice del carcere di Lodi a cavallo degli anni Novanta. Il regista fa partire proprio da qui, da Lodi e dal 1990 il suo film, dai giorni precedenti l’omicidio di Umberto Mormile, il compagno di Armida, che fu ucciso in una mattina di primavera sulla strada tra Melegnano e Binasco. L’assassinio dell’uomo (che era stato educatore nel carcere di Opera) è considerato centrale per comprendere la parabola drammatica della vita di Armida Miserere, la ferita che non si è mai rimarginata nel cuore e nella testa di questa donna che sullo schermo ha la nervosa fragilità di Valeria Golino (mentre Filippo Timi è Umberto Mormile).

Da Lodi 1990 a Sulmona 2003 Come il vento racconta una donna che viveva dietro le sbarre e sentiva di non poter esser protetta, ricostruisce gli episodi di cronaca, i trasferimenti da un carcere all’altro, gli incontri, le ferite subite da un sistema che imponeva a lei (una delle prime donne direttore di carcere in Italia) di far rispettare le regole e contemporaneamente non riusciva a incolpare i mandanti e gli esecutori dell’omicidio del suo amato compagno, nonostante lei stessa avesse individuato una pista poi rivelatasi corretta quando 13 anni dopo, nel 2003, la vicenda arrivò finalmente in giudizio con il processo ai responsabili. Puccioni cerca di ricostruire, e in gran parte ci riesce, una figura controversa e difficile, una donna odiata dai boss in carcere e spesso mal sopportata dalle istituzioni. «Il carcere non è il Jolly hotel e i detenuti devono fare il loro mestiere» cita il regista riportando le parole di un discorso pronunciato a Mantova nel ’97 da una direttrice cheera nota per i suoi metodi risoluti e per le scelte coraggiose e spesso al limite: come l’aver accettato dopo il trasferimento da Lodi incarichi difficili come quello a Pianosa dove nel 1993 si ritrovò unica donna sull’isola su una popolazione di 700 persone, o a Palermo dove nel 1996 collaborò per organizzare il primo incontro tra il procuratore Caselli e il boss mafioso Brusca dopo l’arresto. Tutta una vita raccontata con grande rispetto per il personaggio, trattato dal regista quasi con affetto, descritto nei particolari (le infinite sigarette fumate, le fragilità nascoste) partendo dai racconti di chi l’aveva conosciuta e dai documenti raccolti in un lavoro di ricerca durato alcuni anni.

Lodi e il suo territorio non si vedono se non nella ricostruzione effettuata dagli scenografi per gli interni del carcere e nelle sequenze dell’omicidio di Umberto Mormile, ma i riferimenti a quegli anni cruciali per il destino di questa donna sono molti. Nelle parole e nelle citazioni degli avvenimenti, radicati nel racconto cinematografico come nella memoria dei tanti che nella nostra città avevano conosciuto o anche solo incontrato Armida Misere. Che tragicamente si è tolta la vita nell’aprile del 2003, nella sera di Venerdì Santo, lasciando una lettera in cui spiegando i motivi del suo gesto parlava del «troppo dolore che l’ha sempre accompagnata» e chiedeva di essere cremata e di avere sparse le ceneri al vento «perché vento sono stata».

Il compagno della donna era educatore nel a Opera e fu assassinato sulla strada tra Melegnano e Binasco

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