“Mank”: Hollywood, il cinema e la nascita di un capolavoro

Il film di David Fincher sulla genesi di “Quarto potere”

Che destino beffardo quello toccato a Mank. Il film che racconta la genesi del Film con la maiuscola, quello a lungo citato - praticamente all’unanimità - nelle discussioni sul cinema come “il più bello di tutti i tempi”, arriva al cinema... senza il cinema. Orfano delle sale, senza il buio, gli spettatori, senza le poltrone, il fascio di luce della lampada da proiezione, senza l’emozione condivisa nello stesso spazio. Senza il cinema.

O forse è un regalo e così deve essere inteso Mank: come un gesto, un film-simbolo arrivato apposta e nel momento giusto per ricordarci cos’è il cinema e come tutti quanti dobbiamo aspettare che torni ad essere. Quell’alchimia di emozioni difficile da definire (lo sa lo spietato L.B. Mayer del colosso MGM che un’idea della ricetta ce l’ha), mentre nel frattempo ci viene raccontata la storia della nascita del “più bel film della storia”.

«Compriamo ricordi. Questo facciamo»: erano gli anni Quaranta, era l’epoca d’oro di Hollywood, l’enfant prodige Orson Welles preparava Citizen Kane (Quarto potere) - che sarebbe diventato quello che è diventato. Ma il film diretto da Orson Welles da chi fu scritto?

Mank è basato sulla sceneggiatura scritta dal padre del regista, Jack Fincher, che sposa l’ipotesi che Herman J. Mankiewicz, “Mank” appunto - fosse il vero padre di quel film e non il “semplice” co-autore come riportano e dividono i crediti di Quarto potete. E racconta di come questo geniale e irregolare autore (che hai il volto perfetto, i tic e gli eccessi di Gary Oldman) sia arrivato alla stesura di quella sceneggiatura, attraverso ricordi personali (forse un po’ alterati ma concretissimi).

Ma Mank ovviamente non è solo un film sull’attribuzione di quell’opera, pur fondamentale. È tante cose insieme: è un film sul cinema, innanzitutto, sul suo odore, sulla sua profondità declinata da Fincher nella scala dei grigi e nella grana grossa di un bianco e nero che cattura. E “non è” tante altre cose: non è una biografia di Mankiewicz così come Quarto Potere non era la biografia del magnate dell’editoria William Randolph Hearst, e The social Network non era il bio pic di Zuckemberg (ecco, tra le altre cose, a quest’ultimo film bisogna pensare, tirando le somme, per arrivare a dire che con Mank David Fincher è riuscito di ripetersi a quei livelli altissimi).

È ironico, sarcastico, complesso e ovviamente cinefilo mentre racconta di Hollywood e della sua epoca d’oro. Orson Welles provava Cuore di tenebra e gli Studios pun-tavano sul Mago di Oz. La Grande Depressione aveva messo in ginocchio persino loro e si cercava la maniera di salvare il cinema («proiettiamo i film nelle strade»).

A tratti Mank diventa anche faticoso, ma come Fincher risolve il tema centrale - ovvero la scrittura di quel film - senza descriverne una singola scena, è strabiliante. Solo passando da due piani temporali, andando a ritroso e poi in avanti, ripescando il legame tra Mank e Hearst, e costringendo d’improvviso lo spettatore - mentre ascolta la dettatura delle scene che Mank inventa steso a letto con una gamba rotta e bevendo whisky - a pensare che sta nascendo “quel” film: la storia del magnate dell’editoria Charles Foster Kane che arriverà sullo schermo con quegli stessi flash-back. Ecco qui la magia del cinema insomma: le emozioni, il racconto che arriva al cervello e al cuore, che alimenta le passioni. «Ti può convincere che King Kong è alto 10 piani e che Mary Pickford a 40 anni sia ancora illibata». E se amate il cinema, anche adesso che le sale sono chiuse, anzi proprio adesso Mank è il film da vedere. Anche se non potete avere uno schermo di 16 metri per 4 in cui immergervi. Pensando al giorno in cui al cinema potremo tutti quanti tornare.

Mank

Regia David Fincher

Netflix

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