Maietti e il Brera “lodesan”

«Quasimodo ha scritto che si può delirare per un’oliva pallida: pensa alle cateratte di acquoline scatenate dal coltello a cuore che incide una forma di grana lodesan». Così scriveva Gianni Brera molti anni fa in un saluto ad Andrea Maietti per l’uscita di un suo volume dedicato all’amatissima Bassa. E al grande scrittore-gastronomo-giornalista (questo era l’ordine dei valori per Luciano Bianciardi, secondo cui il Gioânn imbrattava le pagine dei quotidiani sportivi soltanto perché «costretto dal bisogno») le occasioni per «delirare» ingollando un boccone di granon innaffiato da buon vino rosso dei colli banini non sono certo mancate.

Pavese (di San Zenone Po) e amante della pianura lombarda, con i suoi prati verdi e fradici, i suoi campi opimi e l’imperante scighera, Brera non ha mai disdegnato di frequentare una terra solcata da fiumi generosi quali l’Adda e il Lambro (senza dimenticare l’umile e maleodorante Redefossi), che tanto gli rammentavano l’amato “padre Po”.

Nel Lodigiano veniva talvolta a caccia, ma qui soprattutto si recava per trovare gli amici - Age Bassi, Pinuccio Corsi, Gigi Poletti, Andrea Schiavi, Valerio Sartorio, Antonio Cècu Ferrari, lo stesso Maietti per citarne solo alcuni - con cui spesso e volentieri si lanciava in mai banali contese eno-gastronomiche, fiero di appartenere alle schiere di un comune «esercito di Bacco». E qui, il 9 dicembre del 1992, il destino volle che la sua penna smettesse per sempre di scrivere, risparmiandogli in un amen (il tempo di uno schianto mortale in auto appena varcate le porte di Codogno) il tormento della tanto temuta «orrida vecchiezza» (aveva 73 anni).

La madre di Santa Cabrini, infine, lodigianissima patrona degli emigranti, era – scherzi del destino – una Brera, quasi a sancire anche “nelle alte sfere” una liason inscindibile con le nostre terre.

Non è dunque azzardato il titolo che l’amico e “allievo” Andrea Maietti, ha voluto assegnare al volume appena dato alle stampe dai tipi di Pmp (Gianni Brera ‘lodesan’) in occasione dei vent’anni dalla scomparsa del «gran lombardo» che proprio il «ludesan linfatico» Maietti – autore della prima tesi di laurea dedicata all’autore degli «Arcimatti» - aveva eletto quale proprio biografo ufficiale.

«Di un padre non ci si libera», scrive nell’introduzione l’A., che aggiunge: «Dopo vent’anni, sfogliando nel disordinatissimo archivio delle mie nugae, mi sono accorto di come pa’ Gioânnbrerafucarlo sbuchi insistentemente qua e là, senza chiedere permesso, sicuro di poter entrare per diritto di padre. Se tanto ho preso da lui, mi sono detto, non è che a furia di frequentarmi lui è diventato un po’ ‘ludesan’?».

Nel volume, in cui spesso si fatica a distinguere lo stile del “maestro” da quello dell’“allievo” - tanto il primo ha compenetrato il secondo, aderendo entrambi a un sentire comune intriso di una pietas e di una dolente humanitas tutte ambrosiane ma con solidi ancoraggi nella miglior letteratura (da Leopardi all’odiosamato Manzoni, da Elliot a Hemingway) - Maietti raduna brani editi e non della sua produzione “breve” in cui compare, e spesso si staglia imponente e ingombrante come la sua sagoma, Gianni Brera. Un Brera che l’A. non disdegna di collocare a pieno diritto nella «Repubblica delle lettere» - lui che se ne scherniva, snobbando i professori che volevano trasformarlo in un «Gadda spiegato al popolo» - per la sua prosa saporosa ed estrosa, solcata di rivoli poetici come la terra della Bassa dalle rogge che la vivificano, mettendolo al cospetto anche di una “musa” dell’Olimpo letterario lodigiano quale Ada Negri.

«Una scrittura – spiega Maietti – che non dà il suo meglio nei romanzi, che Brera scriveva in risicati ritagli di tempo nelle ferie estive a Monterosso al mare (a pochi passi da casa Montale... ndr), ma piuttosto nelle sue cronache sportive da lui dilatate a chanson de geste, a voli omerici, salvandosi dalla retorica per la raffinata cultura tecnica dell’avvenimento sportivo. E soprattutto la sua scrittura si fa grande negli “Arcimatti” […] pagine che non lasciano l’impressione della bozza, ma piuttosto fanno pensare all’arte del “non-finito”».

Pagine, queste – non diversamente da quelle di Maietti – in cui emergono «il sentimento della morte in agguato, destino ineluttabile da sfidare con il coraggio del vir e la self-dignity, la dignità di sé» e una «religiosità ferita di nostalgia. Di un mondo eroico e primordiale in cui l’ombelico è San Zenone Po, ribattezzato Pianariva (come Cavenago Costaverde per Maietti, ndr) nei racconti. Una religiosità del paesaggio, una sacralità di gesti antichi, nel dramma come nella commedia della vita».

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