“L’intrepido” Albanese di Amelio

Il regista coglie nel segno

nella descrizione della

Milano dei cantieri,

ma tra i tanti temi

che si accavallano

non sempre fa centro

VENEZIA 70 Antonio Pane non ha un lavoro, anche se probabilmente è l’uomo che più di chiunque altro al mondo ama il lavoro. Non uno in particolare, ma il mestiere in assoluto, dal sarto al carpentiere. Forse perché Antonio un lavoro non ce l’ha ed è costretto a inventarsene uno nuovo ogni giorno: in una Milano di cantieri aperti e non finiti, dove il futuro si vede più sui cartelloni pubblicitari che nelle linee della metropolitana completate Antonio fa il “rimpiazzo”, sostituisce quelli che per un motivo o per l’altro un giorno non possono andare in ufficio o in cantiere, assoldato da un misterioso e losco caporale dà il cambio al tranviere e al pony express, più per l’amore per il lavoro in sé (par di capire) che per la necessità economica. Per lui è innanzitutto una questione di dignità: «Voglio alzarmi la mattina e farmi la barba prima di uscire» dice al figlio un certo punto per spiegare la sua condizione. In effetti spesso non si fa pagare, ma lui continua la girandola dei lavori nonostante tutto, almeno fino a quando la realtà non farà irruzione nella sua vita in maniera drammatica.

Antonio Pane (Antonio Albanese) è il protagonista de L’intrepido di Gianni Amelio, una sorta di Candido, un incrollabile ottimista che sorride davanti a tutte le brutture di questa Italia senza lavoro, grigia come Milano sa essere nei giorni grigi, divisa tra mille mestieri e inquadrata assai bene dalla macchina da presa del regista selezionato per il Concorso in questa edizione della Mostra di Venezia.

Contrastanti sono le reazioni che il film provoca nello spettatore che ha amato in passato il cinema del regista calabrese (da Il ladro di bambini al recente Il primo uomo): tra Tempi moderni e Zavattini, i riferimenti che Amelio sceglie sono altissimi. Peccato però che la sua storia si areni in più momenti, in particolare quando sviluppa le storie “secondarie” e quando alterna i toni e i generi, passando a una cifra “neorealistica” da quella surreale dell’inizio. Quando L’intrepido vuol essere un film sulla paternità funziona molto meno e appare decisamente poco convincente rispetto a quando fa riflettere sulla condizione precaria di Antonio, alle prese con il lavoro che non c’è. I temi si accavallano, dai sindacati impotenti «impegnati a inseguire i ratti con un ramoscello» al caporalato, persino allo sfruttamento dei minori e alla pedofilia che a un certo punto irrompe in qualche modo al centro della scena e suscita la reazione di Antonio (ma non la sua denuncia…). Molto meglio quando Amelio descrive una Milano-cantiere aperto, attraversata da un personaggio che cerca un’identità che forse ha smarrito: una città dal grande futuro che però potrebbe essere già passato.

Lucio D’Auria

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