Gli “onesti criminali” siberiani vivono rispettando un codice, regole precise, antichi rituali scritti direttamente sul corpo. Nei tatuaggi, dentro le cicatrici. Nascono e crescono sentendo raccontare le storie dei padri e aspettano il loro momento per mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti, i principi della loro “educazione siberiana”.
Una sfida difficile per il regista che si è affidato agli sceneggiatori Rulli e
La forza del romanzo di Lilin, scritto direttamente in italiano dall’autore russo e non nella lingua madre, stava proprio nella potenza del linguaggio, indispensabile per restituire il racconto di una cultura così complessa e controversa: una lingua semplice, essenziale attraverso cui si srotolava davanti agli occhi del lettore un universo misterioso, violento e tragico, sempre denso di significato. L’universo degli “onesti criminali” siberiani, un popolo lontano, lontanissimo da ogni coordinata a noi conosciuta, nel bene e nel male un’umanità agli antipodi. Regolata da pochi, solidi principi “criminali”.
Salvatores prende le mosse da qui e inizialmente pare voler seguire la traccia originaria: la storia dei bambini-amici Kolima e Gagarin, gli insegnamenti trasmessi dal nonno Kuzja, che educa «senza fare lezioni, ma raccontando storie e ascoltando», mostrando anche la faccia spietata del mondo, senza risparmiare il sangue, il dolore, per insegnare che «un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore può amare».
Nelle case dei siberiani di Fiume Basso si venera una strana “religione”, si rispettano precetti “criminali” che considerano giusto attaccare i soldati e i poliziotti, colpire, ferire, anche uccidere, per difendersi e per rubare, per mantenere le regole e per sostenere la propria comunità. Giusto e sacro come rispettare sopra ogni altra cosa l’amicizia e la lealtà, i legami di sangue, e i “voluti da Dio”, i diversi, come Xenja bellissima e fragile come un cristallo. Xenja, Kolima, Gagarin, nonno Kuzja: sono i figli di questa cultura lontana, congelata dalla neve e dalla storia che ha lasciato intatti i loro costumi.
Lilin nel romanzo (che gli ha causato anche diversi problemi in patria dove non è stato apprezzato che questo mondo fosse tradotto arbitrariamente) li scopre e li dissotterra, con le loro regole e i riti, che nelle pagine guadagnano dignità e che nel film di Salvatores quasi si perdono, in una traduzione assai semplicistica. Concentrandosi sulla vicenda di Kolima e Gagarin il regista finisce per tradurre in maniera molto convenzionale il testo, che non può ritrovarsi nelle immagini del film, pur curate e fotografate in maniera assai suggestiva. Troppo complesso forse ricostruire gli usi, le parole, i codici di Fiume Basso che, come per i tatuaggi sul corpo di nonno Kuzja, quelli a cui Kolima un giorno sarà avviato dal maestro del villaggio, necessitano di una traduzione che non ammette errore. Ogni segno una storia, ogni figura, ogni simbolo un significato. Che per poter essere portato sulla pelle deve prima essere conquistato.
PRIMA VISIONE Gli “onesti criminali” siberiani vivono rispettando un codice. Nascono e crescono sentendo raccontare le storie dei padri e aspettano il loro momento per mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti, i principi della loro “educazione siberiana”.
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