L’Allen-pensiero sulla giostra della vita

«La vita è una commedia. Scritta da un sadico che fa il commediografo…». La vita, raccontata, sognata, idealizzata e poi rimpicciolita, filtrata dietro le lenti squadrate di Woody Allen. Il maestro è arrivato a ottant’anni e con un colpo di coda riesce ancora a sorprendere, se è possibile dirlo arrivati al film numero 47 da regista. E dopo la lunga (ed evitabilissima) parentesi “turistica” recente e qualche passaggio a vuoto condensa un po’ a sorpresa tutto quanto il suo cinema in Cafè Society, partitura jazz in chiave di commedia che nasconde una vena amarissima e una profondità che mancava da tempo.

C’è tutta la poetica del regista dentro la storia di Bobby Dorfman, giovane di belle speranze che dal Bronx emigra a Los Angeles in cerca di fortuna. Gli anni Trenta, l’epoca d’oro del cinema, a far da cornice e poi il jazz appunto, gli scrittori squattrinati e le dive del grande schermo. E soprattutto «i sogni che restano sogni», le illusioni e le disillusioni. Woody Allen concentra tutto quanto in un’ora e mezza di film, sprecando poco o nulla, forte di un rigore formale che gli permette di dedicarsi ai dialoghi, a un testo all’apparenza esile che si fa poi d’improvviso importante come un tomo di filosofia. Peccato solo per un certo disequilibrio tra la prima parte (in cui fa cose che aveva già fatto meglio altrove) e una seconda in cui va deciso al punto scacciando nello spettatore il cattivo pensiero che si tratti solo di una parentesi “di maniera”, di elegante e colta ripetizione.

Il dubbio, la fede e le religioni, New York (ovviamente) e una vena malinconica che a tratti prende il sopravvento: dentro Cafè Society c’è tutto l’Allen-pensiero che torna e ancora si concede il privilegio di una sosta sotto il ponte davanti a Manhattan, per parlare d’amore e di rapporti di coppia (anche se ormai non può più essere lui, Woody, sullo schermo). Le donne, i sentimenti, una felicità impossibile da cogliere. La passione sconfinata per una città, fotografata da Vittorio Storaro come se davvero fossero tornati quegli anni d’oro (anche se questo è il primo film girato da Allen in digitale, proprio perché non ci si deve mai fermare ad autocompiacersi…). E due innamorati un po’ infelici e un po’ disillusi, interpretati magnificamente da Kristen Stewart e da Jesse Eisenberg (che deve sforzarsi per non assomigliare troppo ad Allen stesso). L’ironia si è fatta se possibile ancora più sottile, un tempo bisognava annotarsi su un taccuino le battute che poi sarebbero diventate dei tormentoni da mandare a memoria, oggi tutto appare più intimo, privato. Fulminante a tratti (la sequenza della cena a casa dei genitori di Bobby dopo il suo ritorno a New York in questo senso è da manuale).

Cafè Society mischia le dive del cinema e Socrate, le storie di gangster e di night club con i dialoghi teologici fatti da due anziani litigiosi in camera da letto (con il regista che mette in bocca a uno dei personaggi i suoi dubbi e le sue domande senza risposta). Una tromba jazz a uno sguardo disincantato lanciato di traverso alla giostra dell’esistenza. Perché se la vita è una commedia allora bisogna trovare il modo di raccontarla senza esser presi troppo sul serio, cercando di nascondere in una risata una profonda amarezza o una paura ancora più grande.

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