La versione di Steve Jobs, genio indecifrabile

Un genio e un manager tirannico. Un grande capitano capace di allestire la squadra vincente e di guidarla in maniera perfetta. Un padre assente e anche spietato. Un talento visionario che ha cambiato il nostro modo di stare al mondo e, allo stesso tempo, un uomo odioso non all’altezza delle sue grandi idee: «Peggiore dei prodotti che ha saputo inventare».

Steve Jobs era tutto questo, quello di «Stay hungry. Stay foolish» che ha fatto innamorare le folle e quello “sconosciuto” cher negava il riconoscimento di una figlia non voluta. Esce completamente dall’agiografia, lascia perdere il discorso ai laureandi di Stanford e la celebrazione del mito Danny Boyle per raccontare Steve Jobs nel film che ha voluto intitolare semplicemente così, quasi a voler spogliare, allontanare l’uomo da tutto il resto. Partendo dalla monumentale biografia (autorizzata...) pubblicata nel 2011 da Walter Isaacson il regista (con lo sceneggiatore Aaron Sorkin che già aveva scritto The Social Network) ha messo in scena (e mai termine pare più appropriato) un ritratto essenziale, sincero e a tratti spietato del fondatore della Apple, un racconto diviso in tre atti canonici che isolano altrettanti momenti fondamentali della sua vita e che in qualche maniera sintetizzano il carattere e il percorso professionale e umano di Jobs.

Sfruttando il volto e la fisicità di Michael Fassbender (camaleontico in alcuni momenti, ma mai una semplice controfigura dell’originale) Boyle mette Jobs dietro le quinte, una scelta programmatica per quello che il regista vuol dire: il «direttore d’orchestra» dietro la scena, mentre discute, si impunta per questioni che appaiono banali al mondo intero e fondamentali per lui, litiga, spiazza di continuo amici e avversari, in tre momenti fondamentali della sua carriera. 1984, il lancio del primo Macintosh 128K, 1988 la nascita di NeXT Computer, e infine 1998 l’ennesima rivoluzione, l’arrivo sulla scena del primo iMac. Nessun santino: il regista inglese, supportato da una sceneggiatura che sembra una partitura, mette a nudo il mito e nonostante tutto lo celebra come se non si potesse fare altrimenti, rivela i lati nascosti che convivono con le intuizioni folgoranti, toccando “per la cronaca” alcuni passaggi meramente biografici, utili per ricollegare la storia dal punto di vista cronologico e temporale. Molte le cose dell’iconografia classica date per scontate (la nascita della Apple nel garage…), di più le sfaccettature del carattere rivelate, a partire per esempio dai rapporti controversi con l’amico (e co-fondatore di Apple) Steve Wozniak o con la figlia Lisa.

Quello che esce dal film è un ritratto umanissimo e spiazzante che conquista e che offre diverse chiavi di lettura per decifrare un’epoca intera. Boyle racconta Jobs come un uomo che aveva l’ossessione di cambiare il mondo, che si considerava innanzitutto un artista, al limite un inventore, certo non un informatico alla stregua del “rivale” Bill Gates. Un individuo dispotico, capace di leggere e interpretare in anticipo i cambiamenti di una società intera. Di più: di condizionarli e guidarli con le sue creazioni.

Attraverso un flusso continuo di parole, in un dialogo serratissimo che non si interrompe praticamente mai, con la macchina da presa che si muiove rapida e uno studio dell’inquadratura che mette sempre lo spettatore e Jobs faccia a faccia come se il pubblico fosse piazzato davanti a un computer, il film di Boyle riesce nella complicatissima impresa di decifrare un carattere indecifrabile. Così che all’accensione delle luci in sala sarà impossibile per ognuno anche solo guardare con gli stessi occhi di prima lo schermo del proprio smartphone…

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