La tensione corre lungo i binari del treno

Rachel Watson guarda il mondo attraverso un vetro. Sta seduta nello scompartimento di un treno e guarda scorrere il paesaggio, la gente, le loro storie, senza poterle toccare. Reduce da un divorzio doloroso, che ha provato a dimenticare annegando nell’alcol i rimpianti, viaggia ogni giorno verso New York come una pendolare qualsiasi, passando davanti alla sua vecchia casa dove nel frattempo l’ex marito si è rifatto una famiglia. E guarda. Guarda scorrere la vita degli altri, che immagina bella e felice come non può essere più la sua. In particolare quella di una coppia che le sembra perfetta, la cui armonia le sembra impossibile da incrinare. Fin quando ai suoi occhi qualcosa accade, quando anche tra questi due innamorati si insinua il dubbio, l’ombra del tradimento e della menzogna...

Tratto dall’omonimo libro best seller del 2015 scritto da Paula Hawkins e diventato caso letterario con oltre 10 milioni di copie vendute nel mondo (in Italia è stato pubblicato da Piemme) La ragazza del treno arriva ora sullo schermo con la regia di Tate Taylor chiamato alla difficile impresa di pareggiare al cinema il successo ottenuto in libreria. Si entra in sala con la sensazione che - neanche a dirlo - non sarà semplice replicare le atmosfere del romanzo, un thriller psicologico che ha più di un piano di lettura, e man mano che i minuti passano questa impressione si rafforza.

La ragazza del treno è - dovrebbe essere - un film sullo sguardo, su un’ossessione, un thriller che non nasconde ambizioni hitchcockiane ma che inevitabilmente resta anni luce lontano da quel modello. Nonostante gli sforzi di un cast guidato da Emily Blunt che - a differenza di altre volte - qui non sembra in grado di dare verità e profondità al suo personaggio. Responsabilità che non si possono però lasciare agli interpreti e vanno divise con gli sceneggiatori che (dopo il prologo) hanno ridotto al minimo il discorso sulle ossessioni - elemento che dovrebbe essere centrale in tutta quanta la storia – semplificando anche all’inverosimile i caratteri di tutti i personaggi. Ecco allora che gli uomini appaiono tutti riprovevoli, in preda alle pulsioni più elementari, e le donne tragiche eroine condannate a una sudditanza che si risolverà solo nel finale. Un po’ poco anche se, lasciando perdere il confronto difficile con il successo editoriale, ci si limita a paragonare il film ad altre storie analoghe passate di recente sullo schermo (viene in mente ad esempio Gone Girl). Senza scomodare i modelli più “alti”.

Se da una parte i continui salti temporali non aiutano a rendere il racconto scorrevole da un’altra la discesa all’inferno di Rachel non è mai davvero tragica e appare un po’ “posticcia”, come quel gin che nasconde nella borraccia della minerale. Qui regista e autori avrebbero potuto e dovuto lavorare per indagare nella parte più profonda e buia della personalità della protagonista, che troppo presto diventa un semplice ingranaggio nel meccanismo del thriller che deve arrivare a una conclusione. Dimenticando lungo i binari ogni riflessione sullo sguardo e sulla vita guardata - e non vissuta - attraverso un vetro da Rachel.

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