La talpa che scava fra i resti del sisma e le cime di Arnold

Un lungo carrello sulle macerie del terremoto, accompagnato dalle note solenni di Mozart, apre Himizu, film del visionario regista di culto giapponese Sion Sono che torna a spostare la prospettiva del Concorso numero 68 verso latitudini che in questa edizione non sono state fin qui troppo considerate. Himizu (letteralmente la talpa) è il protagonista del film, giovane in lotta per riconquistare un ruolo e una dignità, dopo un’infanzia difficile, caratterizzata dai tormentati rapporti con il padre e la madre. Vive sulle rive del fiume e in qualche maniera aspetta che gli passino davanti le macerie di un’umanità intera. Quella del suo Paese appena sconvolto dallo tsunami e dal disastro di Fukushima.

Proprio questo sembra essere il senso principale del film di questo autore giapponese, che fa un cinema estremo e difficile da collocare. Carico di simboli e di personaggi che richiamano a fatti e concetti legati un po’ alla realtà e un po’ all’immaginazione del regista, Himizu è un film straniante che non può lasciare indifferenti: le reazioni possono essere di rifiuto o di ammirazione incondizionata, a seconda che si faccia parte o no della schiera degli ammiratori della sua arte. Proprio la parte che sembra più affascinante e coinvolgente, quella che riporta al terremoto e alle macerie, sembra in qualche maniera arrivata dopo nel progetto del regista che già aveva iniziato a girare prima del disastro e solo in “tempo reale” ha inserito questi elementi in corso d’opera. Lo “scavare” della talpa tra i detriti di un Paese in continua trasformazione, e ora così duramente colpito, affascina anche se respinge e, come detto, non lascia indifferenti. E potrebbe riservare sorprese in sede di premiazione.

Torna a leggere invece un classico come Cime tempestose la talentuosa regista Andrea Arnold da cui era lecito aspettarsi alla vigilia una versione molto personale del romanzo di Emily Bronte. Risultato solo in parte raggiunto da questo Wuthering Heights che alla fine conserva un impianto assolutamente classico per restituire la storia dell’amore eterno e contrastato tra Catherine e Heathcliff che generazioni di lettori (e spettatori) ben conoscono. La mano della regista si vede certo in alcune scelte stilistiche, come quella di annullare quasi completamente le musiche per dare spazio a suoni e rumori che rendono il racconto naturale e realistico, così come appare forte la sottolineatura delle diversità culturali tra i due protagonisti, che trasforma anche questa pellicola in un film sull’accoglienza (e l’immigrazione), tema che sta diventando tra i più presenti e importanti in questa Mostra. Se la storia non può, ovviamente, riservare sorprese, queste vanno intercettate nella maniera in cui la Arnold rappresenta il testo della Bronte, un capolavoro che ri-visto a così tanta distanza rivela ancora una straordinaria attualità.

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