La “sfida da favola” di Garrone

Benedetto Croce lo definì «Il più bel libro italiano barocco». Matteo Garrone lo ha scelto perché probabilmente dentro le sue pagine era custodito già molto del suo cinema. Lo cuntu de li cunti di Giambattista Basile è diventato così Il racconto dei racconti, il nuovo film con cui Garrone si presenta al pubblico spostando ancora un po’ più in alto l’asticella della sua produzione. Il regista romano è un autore che non ha timore a esporsi, che ama misurarsi con un’ispirazione sempre complessa. Ha rivelato di cullare da tempo il desiderio del “fantasy”, ma andando a prendere il “Cuntu” di Basile ha fatto molto di più. Tradurre per lo schermo l’opera dello scrittore napoletano, considerata la prima raccolta di fiabe popolari d’Europa, era una sfida (anche produttiva) assoluta. Un kolossal da 12 milioni di euro, girato in inglese, con un cast internazionale, per un film “di genere”, ispirato a novelle scritte in napoletano nel ’600. Ma i “Racconti” di Giambattista Basile come detto stavano già dentro il cinema di Garrone. A posteriori non è difficile individuare il filo comune che lega questo nuovo film alle opere precedenti.

Il racconto dei racconti, attraverso le sue storie popolate di orchi, regine infelici, mostri marini e boschi abitati da esseri spaventosi, parla di ossessioni moderne, di paure che non hanno tempo e che hanno sempre animato il cinema del regista: all’apparenza molto più vicino a L’imbalsamatore e a Primo amore, “Il racconto” sembra legato a doppio filo anche a Reality (e non così distante da Gomorra). Il lavoro sul corpo e la sua trasformazione, l’amore vissuto come ossessione, la dipendenza: Garrone con il suo film dà forma sullo schermo al commento che Italo Calvino aveva dato dell’opera di Basile: «Il sogno di un deforme Shakespeare partenopeo». Seguendo tre vicende (che in realtà mischiano diversi episodi del testo originale) svela la profondità di questo “trattenimento dei piccirille”, novelle popolari che come ormai sappiamo prima che ai piccoli parlano agli adulti. Per esorcizzare i loro incubi. La regina che non riesce ad avere figli e si affida a un incantesimo per soddisfare il suo desiderio. Il re che si innamora della voce di una donna credendola giovane e bella (e la vecchia che cambia pelle…). E infine il sovrano di un terzo regno che concede la propria figlia in sposa a un orco delle montagne… Archetipi, figure che un andamento circolare in qualche maniera riunisce in un’unica storia.

Il racconto dei racconti respinge e affascina, richiede una grande partecipazione e soprattutto un giudizio meditato, che non si faccia travolgere dall’immediato. È un film di raro impatto visivo, in cui Garrone mostra la sua formazione pittorica e precisi riferimenti che vengono citati per comporre ogni inquadratura. Un’opera moderna che attraversa i generi e non ha paura ad avventurarsi in territori oscuri e poco praticati dal nostro cinema. Ma che nasconde anche delle insidie, che fatica in diversi momenti a sprigionare la potenza che le parole e le immagini dovrebbero rivelare. La sfida, si diceva, è innanzitutto produttiva, progettuale. E il rischio finale per l’opera è di rimanere “fredda”, distante, di non sciogliere tutte le domande che si porta appresso. La prima: che la sfida riguardasse più Garrone che il suo pubblico.

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