La nostra terra ha tremato

Mezzanotte di martedì 24 Gennaio. Trilla il telefono. È Luca Ferrari, il figlio di Cècu: «Papà. Un’emorragia cerebrale. Non c’è più niente da fare». Così no, Cècu, senza un saluto: così tratti gli amici? Erompe il lodigiano schietto: malcagad de vün! Come istintivamente si insulta soltanto qualcuno cui vuoi bene. Per far rinculare il magone. Avevamo appena condiviso a mezzogiorno ad Arcagna un piatto di spaghetti all’aglio, un bicchiere di vino e un caffè olmiano («Tutti i libri del mondo non valgono il caffè con un amico»). Soltanto adesso mi torna il tuo scuoter di testa: «Chel mund chì el me pias no, el me pias pü». Ci eravamo stretti comunque la mano, come due degli ultimi difensori di quel Fort Alamo che è la vita, quando si imbocca la strada verso occidente. Ci eravamo passati in silenzio la parola: resistere! Ma se dopo la stretta di mano, una cannonata proditoria sbreccia il muro del forte proprio lì dov’era appostato l’amico, e l’amico crolla giù tra polvere e brandelli di muro, allora – insieme allo sgomento – sbreccia l’insulto. Al mondo, alla vita, se non proprio a Qualcuno che questo mondo e questa vita governa. Da mezzanotte all’una parole al telefono con Tino, nostro presidente al premio di poesia “De Lemene”. Adesso che tutti e due sappiamo dell’amico caduto col superstite pezzo di muro, ricordiamo gli amici caduti prima di lui. Tanti. Poi andiamo incontro alla notte, sapendo che sarà lunga e più buia di sempre.

Sbadiglia la giornata di oggi, mercoledì, con un brivido di terremoto. Vado e torno da Milano con la certezza che la terra di Lodi abbia tremato per aver perduto la sua voce più schietta. Luca, al telefono, me ne dà conferma: «Papà se n’è andato». Sedici anni fa, proprio di questi giorni, se ne andava, anche lui senza un saluto, Age Bassi, Vox Laudis, Voce di Lodi. Se Age è stata la voce della città, Antonio Cècu Ferrari è stata quella dei campi, del “paese di mia madre”. Ha scritto Angelo Stella: «Cècu Ferrari è un narratore, un racconta-storie portato dai suoi ritmi vocali a essere canta-storie e poeta, nella pianura che l’autunno copre con “brancade de nébia”….». Un poeta bigamo. Perché Antonio ha camminato per quarant’anni con la sua Alba, e con un altro amore. Il solo che Alba potesse consentirgli: quello per la terra di Lodi. Une delle più belle poesie di Cècu, La m’ha fai buchin da rid (lo struggimento di un amore che si spegne per invidia del destino) può essere riletta – ci penso adesso – come l’estremo canto ad una terra tanto amata e perduta: «…Ma mì, por diaul/ ma gnüch,/ cul coeur che rantegheva/ g’ho dì a la lüna e al ciel/ e a Quel chi a guverneva:/ fem amò un piasè, tirè den la mè candila/ an’ se l’è gnamò finida/ perché urmai sem in gabada, el camp l’è tüt arad, e mì voeui durmì cun lé».

In altra poesia Cècu parla della vita come viaggio «tra un nigul e un ragg de sul». Che bel! Ma oggi, Cècu, oggi no. Oggi il cielo l’è apéna un gran nigulon.

© RIPRODUZIONE RISERVATA