La lezione d’autore di Polanski

Una lezione d’autore: quattro attori chiusi in una stanza, a dialogare come musicisti di un’orchestra diretta da un grande maestro. Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz e John C. Reilly sono i protagonisti di “Carnage”, pellicola che Roman Polanski ha tratto da un testo teatrale di Yasmina Reza («Le Dieu du carnage») che insegna come sia possibile fare un’opera importante, destinata a rimanere a lungo nella memoria, con pochi mezzi che non siano quelli dati dal talento. I quattro, li conosciamo a stento per nome, sono due coppie, genitori di ragazzini che a scuola si sono picchiati dopo una rissa finita male: si incontrano nell’appartamento elegante e borghese della famiglia del ragazzo che ha avuto la peggio (e due denti rotti) per “ricomporre” la cosa senza che questa degeneri oltre, tra assicurazioni e cause legali. Il tono iniziale tra i quattro è disteso ma subito artefatto, fintamente riconciliante, costruito, come la stanza che li ospita, “allestita” come un set teatrale in cui dovrà andare in scena la riconciliazione. Con il passare dei minuti e il crescere della tensione scopriremo che persino gli abiti, i vestiti sono stati scelti dal marito o dalla moglie per “apparire” normali, rassicuranti. Tutto accade in un crescendo lento ma inesorabile, in cui il tono cambia, il volume delle parole si alza, il loro senso si trasforma. I quattro genitori piano piano calano la maschera e si rivelano: scoprono le rispettive debolezze, gli odi, i rancori, le inconfessabili meschinità che e ne stavano ben chiuse all’interno delle mura domestiche. Il padre che abbandona per strada il criceto della figlia, con una naturalezza che fa inorridire. Il marito che vive con il telefono incollato all’orecchio e misura gli affari di famiglia con lo stesso cinismo che utilizza nelle aule giudiziarie...

Ben presto le due coppie si trasformano, diventano altro. Sono Paesi in lotta, razze diverse, fede, appartenenze, politica e ceti sociali contrapposti, sono qualsiasi cosa sul nostro pianeta sia “diverso”, lontano, differente. La facciata borghese lascia spazio a istinti primordiali, a conflitti mai sopiti, a lotte tra mariti e mogli, tra padri e figli, vicini di casa e di confine. Il “politicamente corretto” è abolito, in un crescendo di tensione straordinario, orchestrato da Polanski con sapienza matematica. Nel film ogni famiglia è un mondo a sé, con regole e ipocrisie e abitudini consolidate, quanto i segreti che nasconde, e il ritmo sale per mostrare quanto tutto questo a un certo punto sia destinato ad esplodere. Mettendo figli e genitori sullo stesso piano, anzi portando gli adulti assai più in là nello scontro, assolutamente più spietato e violento, nonostante non ci siano denti rotti o spargimento di sangue. Non si salva nessuno dallo sguardo beffardo e cinico di Polanski che osserva e mette in discussione l’impianto stesso della società occidentale, su cui arrivano ad accapigliarsi i quattro protagonisti a un certo punto. Loro, poi, gli attori, sono un autentico valore aggiunto al testo, già bellissimo di suo (purtroppo nel doppiaggio italiano tanta parte degli accenti e delle sfumature di queste interpretazioni si perde...). Ma quello che colpisce di più in questo film è il ritmo, il non mettere mai, ma proprio mai, una cosa nel posto sbagliato, un’inquadratura, un dialogo, neppure i titoli di testa. Polanski davvero regala un saggio di regia e di scrittura come se ne vedono di rado, concentrando un universo intero tra quattro. Che alla fine, inevitabilente, esplodono.

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