La fine dell’Impressionismo
EL PAGINON Lo scrittore Piero Trellini ha inaugurato, a novembre, la nostra nuova newsletter culturale. Il contributo, che riproponiamo qui, è figlio di lunghe ricerche che sono in parte confluite in un volume fortunato che l’autore ha scritto qualche anno fa: “L’affaire. Tutti gli uomini del caso Dreyfus”, edito da Bompiani
Lodi
Quest’anno si sono incrociati tre eventi nel nome di Alfred Dreyfus: i 90 anni della morte, la sua promozione postuma a generale e la giornata a lui dedicata istituita da Macron. Quel caso – il famoso Affaire – divise la Francia in due, separando famiglie, giornali, amici e partiti. La storia che segue è stata diffusa attraverso la nostra nuova newsletter di cultura e racconta una delle tante fratture avvenute in quei giorni.
Il pezzo è figlio di lunghe ricerche che sono in parte confluite in un volume fortunato che l’autore ha scritto qualche anno fa: “L’affaire. Tutti gli uomini del caso Dreyfus” (Bompiani). Il libro esplora un universo intero (è molto lungo, 1340 pagine). Dentro questo, insieme a Zola, Clemenceau, Proust, Rodin, Oscar Wilde e molti altri, si trovano a essere protagonisti anche Monet e Degas. Pur essendo legata in qualche modo al libro, la nostra storia è strutturata in altro modo ed è autonoma.
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La fine dell’Impressionismo
Vent’anni prima di varcare l’ultima soglia, Edgar Degas si considerava già un uomo morto. Era solo e accusava disturbi sempre più forti alla vista. Sapeva che lo stavano portando alla cecità, la più grave delle sciagure che possano capitare a un pittore. Inasprito dalla solitudine, travolto dagli sbalzi d’umore e ormai disilluso dalla vita, scorgeva decadenza ovunque si girasse. Tutto era perduto: la sua pittura, la sua fortuna, la sua vita. E dunque, per lui, anche la sua Francia.
Fu in quel periodo, era il 1897, che, su consiglio dei figli di Henri Rouart, iniziò a prendere l’abitudine di farsi leggere dalla sua domestica, Zoé Closier, gli articoli scandalistici de La Libre Parole, il quotidiano antisemita che tre anni prima, scagliandosi contro un capitano ebreo ingiustamente accusato di spionaggio, aveva, di fatto, creato “l’affaire Dreyfus”. Suggestionato da tali congetture, il “terribile Degas” arrivò a individuare la causa della rovina finanziaria della sua famiglia nei grandi banchieri ebrei. Nonostante il suo antisemitismo, però, fino a quel momento era comunque riuscito a convivere, seppur in un regime di tacita sopportazione, con tutta una cerchia di figure di origine ebraica - a lui più o meno care e da lui più o meno distanti - che ruotava attorno alla sua vita.
Fu l’uscita del “J’Accuse…!” di Émile Zola, apparso su L’Aurore del 13 gennaio 1898, a rompere gli argini. Quel memorabile giorno era un giovedì. E come tutti i giovedì da vent’anni a quella parte Degas fu invitato a cena dai coniugi Ludovic e Louise Halévy. Per lui, scapolo e senza legami, rappresentavano la sua famiglia d’adozione. Quella sera fu impossibile non parlare dell’affaire e i commensali più giovani non riuscirono a tenere a freno la lingua. Degas rimase per tutta la serata in silenzio, estraniato dalla compagnia, con le labbra serrate e lo sguardo rivolto al soffitto.
Quando gli impressionisti si erano affacciati al mondo era stato proprio Zola a prendere le loro difese. A lui tutti loro dovevano molto. Due giorni dopo l’uscita dell’articolo, infatti, Claude Monet si affrettò a scrivere al suo vecchio amico: “Bravo e ancora bravo! Con tutto il mio cuore, per il tuo valore”. Lo seguì Camille Pissarro: “Mio caro Zola, questo è per esprimere la mia ammirazione per il tuo grande coraggio”. Entrambi il 18 gennaio aggiunsero la loro firma a favore di Alfred Dreyfus nel cosiddetto Manifesto degli intellettuali. Un paio di giorni dopo, invece, in casa Halévy arrivò una lettera di Degas: “Il divertimento è finito. Lasciatemi nel mio angolo, ci starò bene. Abbiamo tanti bei momenti da ricordare. Il vostro vecchio amico”.
L’affaire dispiegava già la sua potente minaccia, ma mentre per il paese questa aveva ancora contorni confusi, per quel gruppo di uomini iniziava a manifestarsi già allora in tutta la sua allarmante evidenza. Bastò, infatti, aspettare la festa di mezza quaresima del 21 marzo per assistere a una furibonda discussione tra il pittore Pierre-Auguste Renoir e il poeta Stéphane Mallarmé, in quell’occasione schieratosi apertamente al fianco di Zola, avvenuta di fronte a un’attonita Julie Manet, nipote del celebre autore della Déjeuner sur l’herbe e futura moglie di Ernest Rouart, uno dei quattro figli – antidreyfusardi - del pittore Henri.
Legittimato dagli eventi, il conservatore e antisemita Renoir si rivoltò anche contro Pissarro, suo amico da sempre, tirando in ballo ragioni antisemite (“I tuoi figli non sono riusciti a svolgere il servizio militare perché privi di legami con il loro paese”). Fu naturalmente appoggiato da Degas che arrivò persino a definire ignobile la pittura del decano del gruppo. Qualcuno gli fece notare che una volta l’amava: “Sì – rispose - ma era prima dell’Affaire Dreyfus”.
Pissarro e Zola furono ostracizzati anche da Paul Cézanne. Di Pissarro, che conosceva da trentacinque anni, l’artista di Aix-en-Provence si era sempre considerato figlio (“Per me - diceva di lui - è stato un padre, qualcosa di simile al buon Dio”) e discepolo (al punto da presentarsi come “allievo di Pissarro”). Senza contare che, appena tre anni prima, era stato proprio Pissarro a spingere il mercante d’arte Ambroise Vollard ad allestire la sua prima grande mostra personale. Zola, invece, suo compagno di scuola, era stato l’amico di una vita e insieme a lui aveva fantasticato su glorie da condividere (“Ho fatto un sogno – gli aveva scritto Zola il 25 marzo 1860 - avevo realizzato un libro sublime che tu avevi illustrato con splendide incisioni. I nostri due nomi brillavano a lettere d’oro, uniti sul frontespizio, e nella fraternità del genio passavamo inseparabili alla posterità”). Voltando loro le spalle Cézanne aveva reciso definitivamente le ultime radici rimastegli.
Come un’inarrestabile tromba d’aria, l’affaire travolse indiscriminatamente gli affetti più reconditi di quel gruppo, compromettendo i suoi possibili sviluppi, danneggiando irreparabilmente l’universo che gravitava attorno al movimento impressionista - composto da collezionisti, mercanti e critici - ponendo così definitivamente fine alla sua era.
Il ritratto di Gustave Geffroy di Cézanne rimase il simbolo di questa frattura. Era stato proprio il critico d’arte a lanciare il pittore il 25 marzo 1894 con un articolo sul Journal. Lo schivo Cézanne era entusiasta di questo insperato sodalizio e pochi mesi dopo si recò più volte a casa di Geffroy per ritrarlo. Poi, nel pieno dell’affaire, quando la direzione ostentatamente dreyfusarda del giornalista appariva ormai nota, l’artista inviò nella sua abitazione un uomo di fiducia per ritirare tela e materiali. I due non si sarebbero più rivisti e il quadro sarebbe rimasto incompiuto.
Lo sgretolamento del gruppo fece sprofondare Monet in una penosa depressione. Questa lo indusse a posare i pennelli per diciotto mesi. Quando li riprese in mano l’artista non dipinse più nulla che ricordasse la Francia preferendo rifugiare la sua attenzione unicamente nel minuscolo stagno del suo giardino. Su quelle acque galleggiavano ninfee e per quel quarto di secolo che gli restò da vivere non avrebbe fatto altro che ritrarle inseguendole tra i riflessi della luce. Così era stata chiamata la verità per tutto l’affaire. Luce. La stessa che Degas non riusciva più a scorgere. Monet seppe coglierla. E quella nuova bellezza rappresentò il frutto più insperato partorito dall’affaire.
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