La filosofia di Anna a passo di danza

Il tratto distintivo del suo carattere è la timidezza. Anna Ajmone, giovane danzatrice lodigiana lanciata nel campo della danza contemporanea nei maggiori festival italiani e internazionali, quest’anno ha partecipato per la seconda volta alla Biennale Danza a Venezia: ma quando ne parla mostra una singolare miscela di passione, che la illumina mentre racconta l’amore assoluto per “il mestiere più bello del mondo”, e di insicurezza: «Quando Virgilio Sieni mi ha chiamata, dicendomi che aveva pensato a me vedendo lo spazio che voleva assegnarmi per il mio lavoro, all’inizio mi sono sentita inadeguata. Poi sono stata molto contenta sia del risultato, sia di tutto il lavoro di ricerca che ho fatto per preparare la mia coreografia». Per inciso, Virgilio Sieni, il direttore della Biennale Danza, è una star internazionale della danza e della coreografia; ha creato balletti per la Scala, per il Teatro dell’Opera di Roma e per i principali enti lirici italiani. Le sue opere sono state definite «un pensiero in forma di danza». È proprio questo il legame di affinità tra la Ajmone e Sieni: anche Anna è convinta che la cultura della danza non debba essere, come invece accade per lo più in Italia, legata solo all’evento spettacolare. «Io mi occupo di ricerca –spiega -; è un ambito che in un certo senso è molto affine alla filosofia. Quello che mi interessa è un’analisi sul modo di utilizzare il corpo e sul rapporto tra esso, lo spazio e il tempo. Dietro il lavoro fisico c’è una riflessione, un pensiero». Così ha accolto con entusiasmo l’invito di Virgilio Sieni a creare un lavoro destinato a uno spazio particolarmente suggestivo della città di Venezia, lo squero di San Trovaso, «il cantiere dove si costruiscono le gondole. La mia coreografia era un assolo intitolato Buan, una parola che in antico tedesco significava “abitare”, ma anche “costruire”. Mi ha affascinata il concetto di prendere dimora in uno spazio, di costruire un rapporto tra il corpo e lo spazio». E racconta che, per il percorso di ricerca che ha portato allo spettacolo, ha lavorato anche su testi di architetti e di filosofi come Heidegger; ma questa osservazione, come altre che rivelano la dimensione profondamente intellettuale del suo lavoro, la butta lì un po’ sottotono, come scusandosi. Poi ride ripensando alla sua prima esperienza alla Biennale Danza, l’anno scorso: «Erano quasi tutti artisti stranieri, c’erano pochissimi italiani: forse per quello avevo una paura terribile!». Quindi ripercorre in breve il suo percorso di formazione, iniziato a Lodi con la danza classica alla scuola Gaffurio, continuato alla scuola Paolo Grassi di Milano e indirizzato da sempre verso le frontiere della sperimentazione della danza contemporanea: «Ho lavorato per qualche tempo con una compagnia in Svizzera, molto vicina al teatro danza; ma quello che mi interessa soprattutto è un lavoro “scientifico” sul corpo e sulle sue possibilità di mettersi in relazione con lo spazio». La danza contemporanea è un settore ancora poco frequentato in Italia: «È vero. Per esempio in Francia ci sono centri di ricerca coreografica anche nelle piccole città. Forse il pubblico italiano ha qualche diffidenza perché ritiene questo tipo di danza troppo difficile, ha paura di non capire. Io penso invece che l’importante sia riuscire ad abbandonarsi, poi se una cosa è bella ti fai prendere e coinvolgere». L’ultima performance veneziana ha visto Ajmone lavorare “in solitaria”: sua l’ideazione e anche l’esecuzione della coreografia, salvo la collaborazione con un’amica musicista per la scelta delle musiche («alcuni brani di uno straordinario artista americano, Moondog, un musicista di strada cieco, una figura di vagabondo che mi ha interessata molto»); dunque è avviata sulla strada di diventare coreografa, oltre che danzatrice? «Questo non posso ancora dirlo; non rinuncerei mai all’attività di interprete, ma mi sto accorgendo che ho il desiderio di sviluppare anche delle idee mie. È un momento di passaggio, le cose si evolvono. Mi affascina anche incontrare altri artisti che si occupano di altri ambiti espressivi e cercare un linguaggio comune. Vedremo». E i rapporti con Lodi? «Veramente – riflette Anna – non mi dispiacerebbe tornare a fare qualcosa nella mia città, per esempio nell’ambito della didattica: ho condotto spesso seminari presso scuole di danza a Milano e in altre città, ma qui non è capitato. E anche in teatro, mi sembra che non ci sia molto spazio per la danza; io lavoro spesso a Crema, o a Piacenza, dove c’è proprio una stagione dedicata alla danza. Forse è anche una questione di costi: ci sono spettacoli che sono poco “trasportabili”, o troppo costosi». E i tuoi spettacoli sono trasportabili? «Trasportabilissimi!».

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