La bellezza decadente di Sorrentino

«Roma fa perdere tempo». Toglie le forze con la sua grandezza. Distrae Jep Gambardella che dovrebbe scrivere il suo secondo romanzo e invece esce tutte le sere per rientrare all’alba «quando voi vi alzate». Jep che scappa fuori appena si apparecchia una tavola qualsiasi o si alza il volume per non pensare a tutto questo nulla che lo circonda, lui il giornalista dal grande talento sprecato che si è autoproclamato re della mondanità di questa città. Specchio di un Paese intero.

Apre con una citazione del “Viaggio al termine della notte” di Cèline “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino ma è a Fellini e alla sua “Dolce vita” che bisogna guardare mentre ci si infila con il regista napoletano tra le pieghe di un’Italia diventata mostruosa, una vecchia signora con un trucco sguaiato che balla a un ritmo assordante senza vedere il baratro tutto intorno. “La grande bellezza” irraggiungibile è questa, uno splendore consumato e invecchiato, una maschera che ride quando dovrebbe piangere davanti alle macerie che non si possono non vedere, neppure se ci si nasconde in un attico affacciato sul Colosseo.

Il personaggio di Jep Gambardella, il protagonista di questo film, sta nella penna di Sorrentino sin dagli inizi, stava dentro Tony Pisapia e dentro Tony Pagoda: quanti hanno letto il suo romanzo “Hanno tutti ragione” ad esempio hanno familiarità con i dialoghi di Jep, con le “sentenze” spietate e irresistibili che sembrano scritte apposta per la voce di Servillo. Jep alla cui corte, durante le feste, «si fanno i migliori trenini di Roma. Perché non portano da nessuna parte», Jep circondato da un’umanità mostruosa, dipinta da Sorrentino con tratto grottesco e cinico. Umanità elevata a simbolo di questo Paese, troppo bello e troppo brutto allo stesso tempo. Jep che osserva dalla sua terrazza affacciata sul Colosseo, che chiude gli occhi e sogna un mare blu e invece è “costretto” ad aprirli da questo suo osservatorio che toglie il fiato, Jep che guarda ed è complice e giudice allo stesso tempo: «Tanto è solo un trucco, tutto è un trucco» e la realtà ha superato la peggiore fantasia e non si sa dove stia. Certo non qui, non in questo calderone chiamato città. Non a Roma che è troppo bella per poterci vivere, troppo grandiosa persino per poter essere solo guardata da lontano. Senza rischiare di rimanere stecchiti senza fiato, come un qualunque turista giapponese in gita.

Volutamente eccessivo, con tanti finali che non arrivano mai, ricco di riferimenti letterari ma anche irrimediabilmente freddo. E solo a tratti dolente: Sorrentino sembra rimanere bloccato come Jep, davanti a questa Roma passata in pochi anni da Fellini al “cafonal”, incapace di andare oltre, di superare l’evidenza di via Veneto che “aveva i caffè con i divi e si ritrova con i night di quart’ordine”. E il suo film sulla decadenza di una civiltà solo a sprazzi diventa davvero tragico, quando supera la cornice per arrivare al cuore. La camera da presa, con molti virtuosismi, con un gusto per il grottesco, scruta attraverso gli occhi di Gambardella, ma finisce come il trenino in terrazza, a girare su se stessa. Anche se la sceneggiatura (scritta con Umberto Contarello) è capace di regalare personaggi comici e tragici allo stesso tempo (belle le prove di Buccirosso, Verdone e Ferilli).

Nella mente dello spettatore restano così lo sguardo “liquido” del protagonista mentre distrugge miti e stereotipi di questo tempo (ce n’è una collezione intera messa sulla graticola, tra finti artisti e genitori falliti). E la riflessione “alta” sul nulla che siamo diventati, anche se subito si affretta a sottolinearlo lo stesso Jep Gambardella, «non c’è riuscito neppure Flaubert a fare un libro sul nulla». Come a dire, fra le righe, figuratevi un film…

PRIMA VISIONE - «Roma fa perdere tempo». Toglie le forze con la sua grandezza. Distrae Jep Gambardella che dovrebbe scrivere il suo secondo romanzo e invece esce tutte le sere per rientrare all’alba «quando voi vi alzate»...

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