“Interstellar”, i dubbi più forti delle emozioni

Ambizione sfrenata o capolavoro tentato (e mancato). Il dubbio iniziale non sembra sciogliersi quando i titoli di coda scorrono sull’ultima scena del film di Christopher Nolan. Forse perché era troppa l’attesa per il ritorno dietro la macchina da presa del regista di Inception e Memento, forse perché troppo ardue erano la sfida e il confronto con il modello dichiarato (Kubrick). Forse per entrambe le cose: fatto sta che dopo le quasi tre ore di Interstellar resta quasi intatto il dubbio iniziale, pur facendo tesoro dei tanti momenti riusciti (alcuni memorabili) e delle emozioni che il film sa regalare.

In un futuro in cui la terra corre inesorabilmente verso la sua autodistruzione a un pugno di uomini è affidato il compito di salvare l’umanità. Non sono però supereroi, ma scienziati, ingegneri, piloti della Nasa che nel frattempo è caduta in disarmo. Addirittura messa al bando dal diffondersi di teorie complottistiche e negazioniste che dubitano persino dell’uomo sulla Luna. Una nuvola di sabbia che avanza, le accuse alla scienza e alla ricerca, il pianeta che si distrugge (per l’avidità dell’uomo?): il punto di partenza di Nolan è chiaro, anche se poi il lunghissimo prologo dilata tempi e contenuti e presto sorgono gli interrogativi, mano a mano che gli eventi (e i passaggi temporali) si susseguono sullo schermo.

Interstellar è un film sul progresso, sul tempo e sulle domande eterne dell’uomo. Sull’arroganza della scienza e, anche, sulla fede: sono infinite le tracce seminate da un testo che ha rimandi più o meno evidenti e gli stessi livelli di Inception che vanno sempre un poco più in profondità. Ma che non ha una sceneggiatura all’altezza per sostenere tutto quanto. «La scienza è ammettere ciò che non sappiamo» recitano i protagonisti dichiarando in qualche maniera anche la “visione” che muove Nolan, che per non farsi mancare nulla sceglie i versi di Dylan Thomas come guida: «Non andartene docile in quella buona notte. I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno. Infuria, infuria, contro il morire della luce…». Ma Interstellar è anche un film spettacolare e si torna al bivio di partenza: meno spiazzante e mozzafiato di Gravity, meno evocativo e filosofico di Moon di Duncan Jones…

Da uno dei più talentuosi registi della scena americana ci si aspetta sempre d’essere sorpresi, e questa volta l’attesa si allunga a dismisura e al termine resta un po’ l’amaro in bocca... Perché Interstellar, senza scomodare oltre Kubrick, non è nemmeno il più innovativo e geniale film del regista della trilogia “oscura” di Batman. Restano alcuni dei marchi di fabbrica dell’autore: alcuni volti feticcio, le musiche evocative di Hans Zimmer, soprattutto una complessa architettura che è tenuta insieme anche da un montaggio che attraversa lo spazio e il tempo e che a tratti spiazza lo spettatore. Resta la capacità di ricollegare infine i tanti fili di un discorso che ha preso mille strade, dalla filosofia alla biomeccanica, e che si ricongiungono per dare un senso a tutto quello visto sullo schermo. Ma è proprio in questo momento, dopo aver mosso mille pedine e aver acceso decine di interruttori, che arrivano le soluzioni più scontate e ordinarie. Dopo tanta carne messa al fuoco, da Albert Einstein a una novella arca di Noè, tutto si risolve con un battito del cuore, con un meccanismo elementare e già visto. Lungo a dismisura il film vive così di pause e di improvvise accelerazioni e a tratti paradossalmente si ha l’impressione che si arrivi alla soluzione in maniera repentina, frettolosa. Così che il dubbio iniziale rimane in testa, molto più forte dell’emozione.

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