Incassi da record con la “formula-noia”

La noia può fare ascolti. Lo ha scritto domenica Aldo Grasso sul «Corsera» ammettendo di aver sbagliato completamente le previsioni della vigilia sul Festival 2015 (peraltro condivise da molti addetti ai lavori). Previsioni che ipotizzavano un surplus di agonia - dopo lo stanco Sanremo del Fazio bis - per una kermesse lontana dallo “stile” - frenetico, tambureggiante, social (e dunque suppostamente vincente)- dei tempi, incarnato piuttosto dai talent-show alla X Factor/Amici. I dati dell’ultima serata, che ha fatto segnare quasi 12 milioni di spettatori e il 54% di share (il Festival più visto degli ultimi 10 anni), corroborano ulteriormente l’errore alla sfera di cristallo del più blasonato dei critici tv italiani, ma lasciano aperto l’interrogativo di fondo: come si spiega un successo del genere?

Perché è fuori di dubbio che la 65esima edizione di Sanremo sia stata senza guizzi: monocorde come il nero immutabile degli abiti dell’onesto Carlo Conti (e della sua inguardabile cravatta alla Blues Brothers); monotona come le litanie stanche di tante, troppe canzoni (a partire dal brano vincente dei tre tenorini - un compendio fra Claudio Villa e Andrea Bocelli da parte della prima boy band lirica della storia); stucchevole come le esibizioni di gran parte dei comici invitati sul palco.

Eppure mezza Italia televisiva - fra cui (e questa è una novità) molti giovanissimi - si è ritrovata per cinque serate di fila sul divano di casa a tifare questo o quel cantante, a sorridere per le imbarazzanti uscite di Arisa o le sguaiate presentazioni di Emma, ad ammirare i vestiti meravigliosi dell’inutilmente splendido “confetto” spagnolo Rocío Muñoz Morales, rovesciando poi su twitter o facebook un vero e proprio diluvio di commenti.

«Sanremo è Sanremo» recita la solita formula spiegatutto, che però non spiega granché. Se non il fatto che il Festival è ormai un rito cui pochi, specie in tempi di crisi e carenza di alternative, si sottraggono. Perché vi trovano esattamente quel che si aspettano, acquietando davanti al rassicurante spettacolo sanremese (l’azzardo del transgender barbuto Conchita Wurst non è bastato a infrangere l’ovattata normalità del proscenio dell’Ariston), le ansie e le paure di tempi difficili come quelli in cui ci è dato di vivere e che la tv quotidianamente ci rovescia addosso in telegiornali e programmi di approfondimento.

Difficile che le canzoni di questa edizione passino alla storia (del podio a chi scrive è piaciuta soltanto Malika Ayane), men che meno quelle deludentissime della categoria Giovani. Passeranno invece alla storia del Festival i numeri degli ascolti, per cui c’è da pensare che l’anno prossimo - al di là delle ultime dichiarazioni dell’interessato - si possa ritrovare sul palco l’azzimato (e abbronzatissimo) Conti per un bis di noia che, a questo punto, non potrà che bissare gli ascolti del 2015. «Perché Sanremo è Sanremo».

I tre tenorini hanno vinto l’edizione 2015 del Festival, contraddistinta da un boom di ascolti in tutte e cinque le serate dirette dall’impeccabile (e monocorde) Carlo Conti.

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