«Il grinta» e il viaggio alla scoperta della vita

Non è come rimettere in sella John Wayne. Aprire gli occhi, e ritrovarsi davanti praterie e orizzonti sterminati, colorati di un rosso a stento annebbiato dalla polvere sollevata dai cavalli. Gli eroi sono ormai finiti, perduti, invecchiati dolorosamente e la Frontiera, vista da qui, potrebbe non esser mai esistita.

Il grinta messo nelle mani dei Coen non è l’occasione per un remake, per un ennesimo giro di ruota dei geniali fratelli tra i generi da rileggere e rivoluzionare. È piuttosto la maniera per regalarsi uno straordinario romanzo di formazione, un racconto - crudo, essenziale - sulla crescita e sul tempo che scandisce il suo battito e subito si scolora. Come quel lontano west.

Il grinta, il film che “in vecchiaia” regalò il suo unico Oscar a John Wayne, quasi trasfigurato con la benda sull’occhio e nel ruolo di un “cattivo sceriffo”, in questa nuova versione ritorna quindi alle origini, al romanzo che l’ha generato, al tema e alle atmosfere su cui il suo autore Charles Portis aveva costruito la storia. Una vicenda, appunto di crescita e di scoperta: la storia di una ragazzina di 14 anni che un giorno parte assieme a un vecchio cow boy ubriacone e a un giovane ranger credendo di poter andare a vendicare la morte del padre e finirà per imboccare una strada infinitamente più lunga e tortuosa, la strada della vita. Quella che inizia dove finisce l’innocenza.

E’ Mattie Ross la protagonista su cui spostano l’attenzione i Coen, nel loro western che sembra voler annullare subito ogni classicità dalla scena, a vantaggio di una narrazione cupa e realistica, con i colpi di pistola che rimbombano forte e “si sentono” addosso, gli eroi che sono ubriaconi assassini assai poco leali e un senso di biblica giustizia che aleggia sin dalla citazione che suona come un’epigrafe sui titoli di testa. Mattie (l’esordiente Hailee Steinfeld) che sceglie “il Grinta” il vecchio e violento sceriffo (interpretato da uno straordinario Jeff Bridges) per affrontare il cammino in un territorio oscuro come la vendetta, e che insieme a questo, e a un giovane ranger texano (Matt Damon) percorrerà senza saperlo, la strada che porta verso l’età adulta. Il viaggio in un west “spietato” che i Coen dipingono, dicevamo, senza la retorica classica del genere, anzi aggiungendo la nota ironica che deriva dalla loro cifra stilistica e dallo stesso romanzo, che si era persa nelle precedenti versioni cinematografiche. Il film, la storia di vendetta e pistoleri, diventa così quasi un “pretesto” per parlare della crescita di Mattie e del suo percorso di scoperta. Per raccontare di come la ragazza e il vecchio sceriffo finiranno per diventare padre e figlia, uniti in un legame che non è mai spiegato a parole, ma che si mostrerà lungo una pista oscura, ostile, percorsa a cavallo.

Mattie Ross, la coraggiosa ragazzina, diventerà senza volerlo una donna, scoprirà che esiste il male, e imparerà che qualche volta si distingue a fatica dal bene e da ciò che si crede giusto. Troverà la lealtà e anche uno strano codice d’onore, proprio mentre sentirà sulla pelle il dolore e la paura. Attraverserà il suo tempo per ritrovarsi, al termine del viaggio, con altre domande. Al termine di un viaggio che, un istante prima dei titoli di coda, sembrerà a tutti di aver fatto: contando sulla propria pelle il battito di quel tempo passato all’improvviso. Il tempo che ha fatto dimenticare il west, gli eroi e la Frontiera che forse non è mai esistita per davvero con quei lirici tramonti rosso fuoco e che ci lascia invece soli davanti al suo inesorabile incedere.

Lucio D’Auria

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