Il film del week endcon un Clooney straordinario

Non si può correre, sprigionando la rabbia più profonda che si ha in corpo, con dei mocassini ai piedi e un paio di bermuda indosso. Non si è credibili… come provare il dolore più forte davanti a un tramonto caraibico, affacciato magari su una villa con piscina. Ecco, la vita di Matt King è così: fatta di contrasti, trascorsa con una camicia sbagliata addosso, al bordo di una piscina piena di foglie, che sarebbe sempre da pulire. Matt vive alle Hawaii ma non se lo ricorda più probabilmente. Forse si ricorda degli agi e delle comodità che questo comporta, certo, ma non di tutto il resto. È un avvocato, l’amministratore di un patrimonio importante, e ha dimenticato un sacco di cose. La sua famiglia, innanzitutto, le due figlie a cui ha fatto sempre da «genitore di scorta». E la moglie, che all’improvviso, tragicamente, gli ricorderà tutto quanto insieme (e anche assai di più) nel momento in cui avrà un incidente, finirà in coma, e lo costringerà a riavvolgere il nastro e rifare tutto da capo. È un film sui contrasti e sulla crescita «Paradiso amaro» di Alexander Payne, tratto da un romanzo di Kaui Hart Hemmings, pluricandidato agli Oscar e premiato al festival di Toronto, interpretato da un bravissimo George Clooney che aggiunge una tappa importante al suo percorso da attore. I contrasti tra il dolore vissuto dai personaggi e il paradiso terrestre in cui si svolgono gli eventi. Tra il volto da divo del suo protagonista e le terribili camicie che indossa. Tra la verità e l’apparenza, tra quello che ti aspetti e quello che poi è nella realtà.

Un film sul rapporto tra padri e figli, certo, ma di più sulle proprie origini, sulla riscoperta delle radici che, per ognuno di noi, stanno da qualche parte. Ed è un’opera profondamente “americana”. Nella maniera di raccontare e trattare i sentimenti, per come questi, tragici o felici che siano, vengono vissuti. Nel rapporto con la morte, ad esempio. Nel “politicamente corretto” della gestione di un certo tipo di dolore. E di certi argomenti, come l’eutanasia o il testamento biologico. Molto americano, ma da una prospettiva singolare, per la scelta di descrivere una regione di confine, le Hawaii, nei suoi caratteri più intimi e meno noti: «La gente pensa che chi vive qui faccia il surf tutto il giorno. Io sono 15 anni che non salgo su una tavola...» ripete a se stesso Matt.

Ad Alexander Payne interessano le storie della gente comune ed è attirato dai luoghi, dai territori che nei suoi film diventano a loro volta protagonisti. In «Sideways» erano le colline e le strade del vino della California, qui sono le Hawaii. Il “finto paradiso” del titolo. Il regista si conferma nelle sue doti migliori e anche nei suoi difetti. Ha il pregio di raccontare personaggi che risultano veri, davanti ai quali non si ha l’amara sensazione d’essere ingannati. Ma ha il limite di lasciare un sapore di incompiuto in bocca, come se non fosse poi troppa la sostanza nascosta tra le pieghe del suo racconto.

Matt King ha dimenticato un sacco di cose, ma la più importante di tutte (sottolineata dal titolo originale «The descendant») è che ha dimenticato chi è in realtà. Anche se l’ambiente che lo circonda dovrebbe ricordarglielo ogni volta che apre gli occhi. Con tutte le sue imperfezioni, è messo continuamente a confronto con la perfezione della natura, delle isole dei suoi avi, fino a quando proprio queste non saranno decisive e rivelatrici per imprimere una svolta alla sua vita.

Chissà forse finirà per pulirla la piscina, o forse capirà il perché della sua esistenza proprio laggiù, in quell’angolo di paradiso. Proprio come il pinguino del documentario che, nel suo salotto, passa sui titoli di coda: un uccello che non vola ma che al Polo è rimasto l’unico superstite, in una terra difficile.

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