Il figlio del “giudice”: un ritorno al passato

Si è portato dietro poche cose dal suo passato e dalla città in cui è cresciuto l’avvocato Palmer. I fiori che coltivava la madre e tanta rabbia, niente altro. E non sarà un viaggio semplice quello da affrontare quando dovrà fare il cammino a ritroso, da Chicago all’Indiana, per ritrovare la famiglia e con essa tutti i fantasmi che credeva ben nascosti in un angolo, coperti da successo e ricchezza. Così all’avvocato Palmer toccherà in sorte di ritrovare l’anziano padre, che pure lui come tutti gli altri chiama semplicemente “giudice”, austera e moralmente ineccepibile figura che aveva contato più di ogni altra nel suo allontanamento da casa e dagli affetti.

È un legal thriller con ambizioni non convenzionali The judge, in cui si “nasconde” un film sul passato e sui legacci che tengono insieme padri e figli, fratelli e vincoli di sangue che resistono nel tempo più di quanto noi stessi siamo portati a credere. Peccato per l’andamento altalenante che fa deragliare troppo presto la pellicola nel melodramma e non fa sfruttare le tante (forse troppe) storie parallele che gli autori disegnano sottotraccia. La contrapposizione tra giustizia e verità, autorità e comando, lealtà e regola morale, tra l’America progressista e quella della provincia profonda. I protagonisti sembrano destinati a dibattersi di continuo su questioni complesse e universali, costretti tutti quanti a fare i conti con un passato che non si cancella e non può nemmeno essere mandato avanti veloce come il nastro di una cassetta. David Dobkin, che fino ad oggi si era distino in particolare nella regia di commedie, ha l’ambizione di non replicare semplicemente il genere, ma è deciso a inserire elementi e linee di racconto che rendano personale il suo film. Interessante è ad esempio la vena ironica che qua e là si coglie in un dramma familiare che invece resta piuttosto convenzionale nella sua costruzione. Così la parte del leone alla fine la fanno gli interpreti, che coprono anche alcune lacune della sceneggiatura. Non solo Robert Downey jr. affiancato dal gigante Robert Duvall, ma anche le “seconde linee” che seconde non sono: un dolente Vincent D’Onofrio ad esempio, o Vera Farmiga intensa nella parte dell’ex fidanzata rimasta a casa quando tutti gli altri partivano. O il procuratore Billy Bob Thornton, agguerrito e sottile. Davvero una bella orchestra a sostegno dei due protagonisti: per Robert Downey jr. (a cui restano sempre appiccicati in qualche maniera gli abiti di Sherlock Holmes) c’è poi l’occasione di misurarsi un ruolo che deve aver sentito anche molto vicino e che in qualche maniera molto gli somiglia.

A pesare però è la tentazione della scena madre, la voglia di calcare la mano per suscitare una commozione che quando poi arriva suona un po’ “finta”. Molto meglio allora i cambi di direzione, gli assoli che permettono di liberare un po’ di fantasia, assieme al cinismo dell’avvocato Palmer, imperdibile ad esempio quando snocciola la sua teoria sugli adesivi appiccicati sul retro delle automobili, che in qualche modo permettono un censimento della popolazione americana, praticamente senza possibilità d’errore…

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